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— Cibo, bagno, letto — scandì Duun. Thorn mise giù il bagaglio e Duun lo aprì e ne prese il mantello. Dentro ce n’era avvolto un secondo. — Questo è tuo. — Duun lo appoggiò sul rialzo. — Quando ne avrai bisogno.

Thorn guardò il mantello e poi Duun. E Duun uscì, in cerca di quelle cose che aveva detto.

Non era completamente sicuro neppure lì: Duun lo sapeva. C’erano sempre, dove esistevano shonunin, mezzi per corrompere e mezzi per colpire un obiettivo. I ghotanin avevano pensato che a Gatog Uno il traghetto fosse il bersaglio più vulnerabile; a Gatog Due il combattimento sarebbe stato probabilmente più vicino alla stazione stessa, ma i ghotanin avrebbero potuto cambiare idea e indirizzare lì la loro attenzione. La Compagnia Dallen non li forniva più di fondi. Era probabile che adesso cercassero di tenere la stazione terrestre, e bloccare Tangen, che con gli alleati kosan e tanun teneva i porti delle navette e i controlli terrestri dei satelliti difensivi. Pochi sarebbero andati nello spazio con quelle navette. Lo spazio era fuori portata per la maggior parte della terra adesso, forse per anni e anni, e la stazione terrestre sarebbe rimasta priva di navi, se i ghotanin rischiavano le poche che gli restavano al di fuori della zona del conflitto.

Duun entrò nella camera da letto buia, senza cercare di essere silenzioso. Per quanto esausto, Thorn era sveglio. — Sono io — disse Duun. — Dormi pure. Ho alcune cose da fare. Ci sono hatani a ogni ingresso, e io li conosco. Dormi.

Si mosse nel letto, si voltò sulla schiena e guardò Duun nella penombra. Thorn odorava soprattutto di sapone, adesso. Si era strigliato e rasato. — Tornerai? — chiese.

— Oh, sì. — (Ha intuito qualcosa.) — Dormi profondamente, Thorn. Puoi farlo, qui. Con loro fuori. Rilassati.

Duun uscì, e questa volta chiuse la porta.

Erano arrivati dei visitatori. — Chi sono? — chiese Thorn a colazione. — Gente che vuole vederti — rispose Duun, guardandolo attraverso il tavolo in modo guardingo e indagatore. — Finisci di far colazione e renditi presentabile. Non voglio vergognarmi di te.

Thorn appoggiò il piatto di fronte alle sue gambe incrociate, e ci mise dentro il cucchiaio. — No, finisci tutto — disse Duun. — Hai tempo. Hai perso peso.

— Non mi è mai piaciuta questa roba. — Era la carne tritata, color verde, che mangiava ogni giorno a casa. Aveva il sapore dell’olio di pesce che c’era nelle pillole che prendeva da bambino, una volta che ne aveva masticata una. — Ho già lo stomaco abbastanza in disordine.

— La gente ti preoccupa.

(Hai bisogno di qualcosa, pesciolino?)

— Le loro facce mi gridano — proruppe Thorn. Era l’espressione più adatta per spiegarlo.

Duun lo guardò, immobile come uno stagno in inverno. — Troppe necessità tutte in una volta, vero Haras- hatani?

— Duun, com’è la terra? Hai notizie?

(Non vuole questa domanda. Non la vuole neanche un po’.)

— Sagot ti manda i suoi saluti — disse Duun.

(Mente, senz’altro mente; è così bravo a non farlo capire.) Ma sembrava la verità. (Sagot nella sua stanza, Sagot che mi aspetta… O dei, voglio tornare a casa, Duun!)

— Mi fa piacere — soggiunse Thorn. — Diglielo da parte mia.

— Glielo riferirò. Mangia la tua colazione.

Thorn si girò sul rialzo, e mise giù i piedi evitando la teiera.

— Thorn.

Thorn si fermò; era un riflesso condizionato.

— Indossa il mantello — disse Duun.

I visitatori erano quasi tutti anziani; due molto vecchi, con la pallida maschera degli anni sul loro volto. Uno era hatani, e l’altro della Corporazione kosan. C’erano alcuni shonunin di mezza età; alcuni con la cresta nera di Bigon, altri con le punte argentee dell’isola ghiacciata di Soghai. Thorn aveva sentito parlare di quella gente, ma non ne aveva mai visto nessuno. C’era poi una donna, un’hatani, ed era la donna più bella che avesse mai visto. Sogasi, la chiamò Duun, e Thorn registrò quel nome come aveva registrato gli altri, nella loro sequenza e secondo la corporazione, che erano hatani, tanun e kosan. I tanunin lo guardavano con quella franchezza che aveva visto in Ghindi, in Weig e negli altri; i kosanin con una specie di timore e di desiderio. Gli hatani mascheravano tutto quanto, e lui gliene era grato.

I visitatori non parlarono mai con lui. Pochi lo guardarono direttamente negli occhi, a parte gli hatani. (Grazie, rispose loro Thorn, con un lieve rilassamento del viso, e ricevendo lo stesso messaggio; una lieve contrazione dei muscoli sopra un occhio.) — Parleremo più tardi — disse il vecchio kosan a Duun. — Fagli presente che siamo felici di averlo visto — disse un tanun, e Thorn si sentì ancora più grato per il mantello hatani, che gli dava una qualche protezione ed era qualcosa per nascondere la sua pelle liscia e la sua differenza ai loro occhi. — Grazie — disse Thorn a bassa voce, senza dolore. — È stato un lungo viaggio, Voegi-tanun. Vorrei che altri ci fossero riusciti.

Questo li sorprese, in un certo modo. Aveva cominciato con parole cortesi, che pensava giuste o almeno vere, senza preoccuparsi se l’avrebbero disprezzato o ringraziato. Non l’aveva detto a Ghindi e a Weig; alla donna che aveva chiuso il portello; ai piloti e a Sagot. Spaventò Voegi. (Quell’uomo non doveva parlarmi; e adesso pensa di aver fatto qualcosa che la sua corporazione disapproverà.) I tanunin gridavano sempre più forte, dimenandosi: un piccolo passo indietro, e Voegi si avvicinò al suo superiore, con le orecchie tirate indietro per la preoccupazione. Gli altri tanunin si mossero e fecero dei vaghi inchini, e mostrarono tutti i segni di volersene andare; i kosanin furono più decisi. L’hatani più vecchio guardò Duun, e ne ebbe un segno di congedo. Così si voltò, e fece uscire gli altri.

— Cosa significa? — chiese Thorn.

— Facciamo una passeggiata — disse Duun.

Dopo molti corridoi, attraversarono una grande sala, dove alcuni tecnici, vestiti interamente di bianco, lavoravano con dei terminali di computer in grembo. I tecnici si voltarono, incuriositi, e poi li fissarono con stupore. Cominciarono infine ad alzarsi, ad uno ad uno. — State seduti — disse Duun. La sua voce tranquilla arrivò alle pareti della vasta sala, piena di rialzi quasi tutti vuoti, fermando ogni movimento. E ancora più sommessamente: — Questo è il centro di controllo. Niente in arrivo, adesso. Roba di ordinaria amministrazione.

— Cosa fanno? — chiese Thorn, dal momento che pareva sollecitato a porre domande.

— Tengono sotto controllo gli impianti. — Duun lo portò in un angolo della stanza, e usò un tesserino per aprire la porta di un ascensore: era del tipo che avevano usato per entrare nella ruota. Thorn afferrò il più vicino palo di sostegno mentre la porta si chiudeva.

Dove stiamo andando? — chiese Thorn. La reticenza di Duun lo irritava. (Ma cosa saprei se me lo dicesse? Non può dirmelo. Può solo pormi degli indovinelli, e lasciare che ci arrivi meglio che posso.)

— Nel futuro — rispose Duun. (Vero e non vero.) L’ascensore si mosse, e la forza più intensa parve quella delle loro mani sul palo, mentre le altre forze sembrarono farsi sempre più ambigue. — Hai visto la terra, dai suoi aspetti più semplici a quelli più complessi. Il suo passato e il suo presente. Ora sei su Gatog; non vedi nessun paradosso?

— Non capisco, Duun. Dovrei vederlo?

— Il tuo mondo è cambiamento. Scorrere e cambiare.

— Torneremo a casa?

— È questa la tua domanda?

La cabina parve cambiare bruscamente direzione. Thorn strinse il palo, guardò il quadro di controllo, e di nuovo Duun. — Abbiamo superato il centro — disse Duun. — Stiamo spostandoci un’altra volta verso l’esterno.