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Duun lo strinse a sé, come aveva fatto spesso quando Thorn era più piccolo, se lo tirò in grembo e gli diede dei colpetti sulla pancia; Thorn resistette un momento, si dimenò e alla fine cedette con strilli e risate, e tentativi abortiti di rispondere nella stessa maniera. Duun lo lasciò vincere e si stese sulla sabbia vicino al fuoco, con la pancia che si sollevava sotto il peso leggero di Thorn, in risate che non erano istintive come quelle di Thorn. Essere toccato alla pancia o alla gola era contro l’istinto. C’era un senso di pericolo in quell’abbandono.

Ma un bambino doveva vincere. Qualche volta. E qualche volta perdere. C’era forza in entrambe le cose.

— Forza, vieni — lo incitò, guardando giù. Il pendio roccioso era una grossa difficoltà per le piccole gambe del bimbo e il passo di Duun era lungo. Thorn, con le gambe larghe e le braccia penzoloni, fece ancora qualche passo ondeggiante. — Arrampicati — disse Duun. — Ce la fai.

Ancora qualche passo. Thorn cadde e si mise a piangere, debolmente, senza fiato. — Non ce la faccio.

— Se hai il fiato per piangere, ce l’hai anche per arrampicarti. Vieni su! Vuoi farmi vergognare?

— Mi sono fatto male al ginocchio! — Thorn si sedette, tenendosi il ginocchio e dondolandosi.

— Io mi sono fatto male alla mano una volta. Alzati e cammina. Qualcuno ci sta inseguendo.

Thorn trattenne il respiro e guardò in basso, singhiozzando ancora.

— Forse ci mangerà — disse Duun. — Alzati. Vieni.

Thorn lasciò andare il ginocchio arrossato. Si decise a muoversi e si alzò in piedi. Vacillò e andò avanti, disperatamente.

— Ho detto una bugia — disse Duun. — Ma anche tu. Ce la facevi ad alzarti. Vieni.

Thorn singhiozzò, tirò su col naso. Pianse di rabbia. Continuò a camminare. Duun avanzò a passi più brevi, come se la strada si fosse fatta più ripida anche per lui.

— Ancora. — Duun diede a Thorn un altro sasso. Thorn lo scagliò. Colpì una roccia più bassa di prima. — Non è gran che. Riprova.

— Prova tu.

Duun tirò. Il sasso volò in alto e arrivò quasi alla cima della parete a picco. La bocca del bambino rimase aperta, stupita. — Questo è quanto posso fare io — disse Duun. — Fallo anche tu.

— Non sono capace.

— Non ci sento bene. Qualcuno ha detto “non sono capace”?

Thorn prese il sasso. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, Lanciò. Il sasso volò ignominiosamente basso perdendosi fra le pietre alla base della parete.

— Ah. Ti ho spaventato. Thorn ha paura. Sento ancora “non sono capace”.

— Ti odio!

— Allora colpisci me. Sono più vicino. Forse ci riesci a colpire me.

La faccia di Thorn era arrossata. Aveva gli occhi bagnati e le labbra che tremavano. Si girò di scatto, e lanciò il sasso verso la parete.

— È stato il tuo tiro migliore — disse Duun.

3

Quando i medici tornarono, c’era anche Ellud. — Ellud — disse Duun.

— Ti trovo bene — replicò Ellud, scrutandolo con una lunga occhiata. E con uno sguardo furtivo a Thorn, che era fermo nel salone dove gli odiati medici preparavano i loro strumenti di tortura. Thorn guardava accigliato. Il sole aveva dato alla sua pelle una tinta bruno-dorata. I capelli, che Duun tagliava in modo che non si impigliassero nei rami o gli scendessero sugli occhi quando lavorava, erano di un colore terra chiaro e lucido. Gli occhi erano per metà bianchi e per metà azzurri. Il naso si era fatto più sporgente, i denti forti, anche se smussati. Era immobile. Le sue povere orecchie non sapevano muoversi. Solo l’allargarsi regolare delle narici tradiva il suo fastidio.

— Thorn — disse Duun. — Vieni qui. Questo è Ellud. Non essere maleducato, Thorn.

— È un medico? — chiese Thorn sospettoso.

Le orecchie di Ellud si abbassarono. Se gli avesse parlato una roccia, non sarebbe rimasto meno scosso. Guardò Duun e non disse nulla.

— No — rispose Duun. — Un amico. Di molti anni fa.

Thorn alzò gli occhi e sbatté le palpebre. Arrivò un medico, lo prese e si apprestò a misurargli i battiti.

— Torna in città — disse Ellud. — Duun, ritorna.

— E una richiesta o un ordine?

— Duun…

— Ricordati: mi hai promesso qualsiasi cosa. Non ancora, Ellud.

Quella sera Thorn rimase silenzioso e triste. Era pensieroso. Non chiese di Ellud e non parlò dei medici.

Thorn adesso dormiva da solo. C’erano dei cambiamenti nel suo corpo che rendevano la cosa consigliabile. Andò nella sua stanza, fra le molte della casa, e si rannicchiò nella propria intimità. Duun andò a trovarlo.

— Le mie orecchie cresceranno? — chiese Thron guardando Duun che se ne stava in piedi sulla soglia.

Orecchie. Forse quella era la cosa più facile e meno dolorosa da chiedere. Rimase per un po’ in silenzio. Aveva pensato a come rispondere sugli artigli, i peli, la forma delle facce e la differenza nei lombi. Aveva pensato a tutto tranne che alle orecchie.

— Non credo — disse. — A me non importa, e a te?

Dalla piccola ombra nel letto non giunse nessuna risposta.

— Sei insolito — aggiunse Duun.

Thorn tirò su col naso.

— Tu mi piaci così — proseguì Duun.

— Tu mi piaci — sussurrò la piccola voce senza corpo. Ancora il rumore col naso. — Mi piaci, Duun. — Amore, ricordò Duun, era una parola che non aveva mai usato con Thorn. Mi piaci. Come poteva dar piacere il fuoco caldo o il sole sulla schiena.

— Anche tu mi piaci, Thorn.

— Non voglio più medici.

— Glielo dirò. Vuoi andare caccia, domani? Ti darò un coltello tutto tuo. Ti farò vedere come si tiene la lama.

— A caccia di cosa? — Tirò su col naso. Si passò un braccio sugli occhi e poi sotto le narici.

C’era interesse nella sua voce infantile.

— Io sono hatani, Thorn. È una cosa difficile. Per questo non ti do tregua.

— Cos’è hatani?

— Te lo farò vedere, domani. Ti insegnerò. Imparerai a fare quello che so fare io. Sarà dura, Thorn.

L’ombra si passò ancora una volta il braccio sugli occhi.

— Domani, Thorn?

— Sì.

— Allora dormi.

Duun tornò vicino al fuoco. Il vento fuori ululava, al freddo. Le fiamme balzavano alte. La legna dei contadini era finita. Avevano cominciato a usare un vecchio tronco che si trovava lungo il pendio. Lo aveva tagliato con la sega meccanica che si era fatto portare insieme alle provviste, e lo portava su un pezzo alla volta. Nessuno dei contadini avrebbe toccato la catasta che aveva innalzato ai margini della strada. Non si facevano vedere e non lasciavano segni vicini alla casa. Ma lui però sapeva che erano lì.

Conoscevano la pazienza hatani, ma i contadini avevano una pazienza tutta loro. Forse le cose sarebbero cambiate; forse l’hatani sarebbe morto; forse l’alieno avrebbe avuto un incidente; forse il loro diritto di proprietà sarebbe tornato valido.

Forse facevano dei brutti sogni, giù nella valle, sull’altro lato della montagna, lontano dalla sua vista e dalla sua mente. Forse avevano incubi, immaginando che i loro boschi non fossero più loro.

O che i boschi non potessero appartenere più a loro, per sempre.

Aveva chiesto, ottenendole, la casa e le terre di Sheon. E finora, di quei terreni, non aveva mai usufruito.

Prese le sue armi dall’ultimo ripiano dell’armadio chiuso a chiave dove le aveva messe, lontane dalle mani curiose del bambino. Le aveva tirate fuori molte volte per pulirle e oliarle, e non aveva mai permesso al piccolo di toccarle: con grande frustrazione di Thorn. Ma un bambino deve avere delle ambizioni non soddisfatte; deve sapere che ci sono cose proibite. Senza dubbio, Thorn aveva tentato di prenderle, qualche volta. I bambini non sono sempre virtuosi. Era un cosa prevedibile; perciò Duun aveva preso le sue precauzioni.