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— Ancora meglio. La prossima volta pensa prima. E pensa a tutto. Conosci questo sentiero. Avresti dovuto vedere queste pietre nella tua testa, prima di arrivarci.

Nessuna risposta. Thorn sapeva. Duun sapeva che lui sapeva. Thorn si passò l’avambraccio sulla faccia, mescolando polvere e sudore. Anche a quella distanza, puzzava di caldo.

— Inoltre — gli ricordò Duun con delicatezza — quando hai girato attorno alla montagna, il vento veniva alle tue spalle, ad angolo rispetto alle rocce. Capisci perché questo avrebbe dovuto metterti in guardia?

Thorn sbatté le palpebre bagnate di sudore e si asciugò ancora. Era diventato più slanciato, con gli arti più lunghi. La pancia si era incavata sotto le costole ed era segnata da muscoli ben visibili al di sopra del panno che portava attorno alla vita. Le cicatrici lasciate dai graffi risaltarono bianche sulla pelle. — L’odore — disse. C’era dell’umiliazione sulla sua faccia seminascosta. — Mi dispiace. Mi dispiace, Duun.

— Il dispiacere non ti salverà. Che tu non senta gli odori, non vuol dire che non li sentano gli altri. Sei morto, Thorn.

— Sì, Duun. — Un voce debole, roca. Le spalle si abbassarono ancora. — Non mi prenderai più.

— Davvero?

— Duun… ho fame, Duun!

Duun girò attorno all’albero e vi si appoggiò guardando il ragazzo in modo accigliato. — Vai a caccia, allora. Sciocco. Non dirmi di cosa hai bisogno. Saprò dove trovarti. Non aspettarti niente da me, Thorn.

— Non sto giocando, Duun!

— Neanche io. — Duun girò nuovamente attorno al tronco. Cominciò a scendere lungo il pendio. — La prossima volta ti farò male, Thorn!

— Duun!

Il fuoco scoppiettava nella radura. Fecero pace. Thorn si curava i graffi. Fu la preda di Duun a essere divisa, carne che Thorn prese con la punta delle dita, passandosela da una mano all’altra per farla raffreddare.

— Te la cavi bene — disse Duun.

— Per uno che non sente gli odori — disse Thorn raucamente. — E che cade nelle trappole.

Duun mosse le orecchie. — Bene, ti preoccupi delle tue debolezze. Ci penserai. Non te ne dimenticherai più.

— Duun, cosa c’è di sbagliato in me?

La domanda lo colse di sorpresa. La carne gli scottò le dita, e Duun la passò in fretta da una mano all’altra, per poi appoggiarla su un sasso.

— Sbagliato? Chi ha detto che c’è qualcosa di sbagliato?

Silenzio dall’altra parte del fuoco. Un silenzio penoso.

— Tu sei diverso — disse Duun. — O forse io sono diverso. Non ti è mai venuto in mente?

Non gli era mai venuto in mente. Thorn sbatté le palpebre, stupito. Poi l’incredulità si fece strada: c’erano i medici, c’era Ellud… Thorn non si fece prendere per il naso. E Duun fu compiaciuto anche di questo.

— Sei furbo — disse Duun. — Sei sveglio, intelligente, coraggioso. Tutto quanto. Sei Thorn. E se tu fossi il solo? E se io fossi il solo Duun? Questo farebbe qualche differenza? Tu sei tutto quello che puoi essere. Non hai bisogno d’altro. Io neppure.

— Parla chiaro, Duun!

— Il mondo è grande, ragazzo. Grande. Ci sono nove mari. Ci sono le città. Ci sono strade grandi e piccole. Gente che ha fretta. Le città sono piene di rumore. E Sheon è molto meglio. Gli dei hanno fatto l’intero mondo, ma hanno fatto Sheon per prima. Tu parli con i venti, Thorn. Senti gli dei che ti rispondono? Li senti?

— Non so.

— Questo non puoi sentirlo nella città. Chi ci abita è insensibile agli odori: ce ne sono troppi, da farti venire il mal di testa. — Duun strappò un pezzo di carne e inghiottì. — Gli dei hanno fatto il mondo, e per ultimi hanno fatto gli shonunin, con gli scarti; ma non bastavano. Erano dispiaciuti, così ciascun dio cedette un pezzo per completare quell’ultima creazione. Ecco quello che siamo: quasi tutti scarti e alcuni pezzi di dei. Un miscuglio di parti buone e cattive. Per questo tu non hai odorato, io ho solo sei dita e tu ne hai cinque su una sola mano.

— Come è stato…?

Ah. Il pesce aveva abboccato. Duun aveva pensato che quell’esca l’avrebbe distratto. Alzò le spalle. — Ho fatto un errore. Vedi? Anch’io faccio errori. E sono bravo, Thorn, molto bravo. Non sai quanto.

Thorn mandò giù a fatica un pezzo di carne. Doveva masticare più di Duun. Qualche volta, nella fretta se ne dimenticava. Quasi si soffocava. Rimase in silenzio. — Cos’è successo? — chiese alla fine. — Duun, cosa è successo alla tua…?

— Be’. Ho dato la caccia a una cosa che mi ha morso, vedi? — Sollevò la mano mutilata. — Se metti la mano in certe cose, giovane Thorn, può darsi che ne vieni fuori non come volevi tu.

— Cos’era?

Duun strappò un altro boccone. Inghiottì. — Mangia. Si sta raffreddando.

— Duun.

— Forse te lo dirò. Quando riuscirai a battermi, lealmente o no.

— Non ci riuscirò mai!

— Ah. Forse no. Ma hai parecchie dita di vantaggio e sei più giovane. Inoltre le ginocchia mi fanno male quando piove.

— I medici non potrebbero…

— Forse, ma non mi va.

La bocca di Thorn era spalancata. La chiuse e smise di fare domande. I suoi occhi erano oscurati da domande non fatte e da troppe risposte. Era ormai diventato un cacciatore guardingo per inoltrarsi in un sentiero che probabilmente nascondeva delle trappole. Thorn prese un altro boccone e mangiò in silenzio.

— T’insegnerò a sparare — disse Duun. — Quasi mi hai colpito con quella pietra.

Thorn alzò lo sguardo. Era stato distratto ancora una volta. Attirato lontano con le promesse. (O giovane sciocco. Sciocco chi mi ama. Thorn.)

— Un’altra sequenza — disse Duun. — A base dieci questa volta. I numeri sono: sedici, quarantanove, cinquantadue, novantasette, otto e due.

Thorn sedeva sotto la veranda posteriore della casa. Gli hiyi erano in fiore. Gli insetti ronzavano, e facevano andare in delirio i petali rosa. Thorn chiuse gli occhi e la sua fronte si aggrottò. — Duecentoventiquattro.

— Dividi per il terzo della sequenza.

Thorn si portò le mani agli occhi e spinse forte. — Quattro virgola tre. — Alzò gli occhi. — Non possiamo andare a cacciare, Duun? Sono stanco di…

— Altri decimali.

Thorn richiuse gli occhi. Le mani erano sempre premute, per escludere la luce. — Virgola tre zero otto.

— Aggiungi nove. Sottrai quattro, ottantadue, sei.

Le mani si abbassarono. Le palpebre sbatterono. — Mi dispiace, Duun, mi sono sfuggiti. Ho dimenticato…

— No. Non hai ricordato. Pensa. Dimmi i numeri.

— Non…

— Sto per sentire non posso?

— Non ricordo.

— Non ricordi. Non ricordi. C’era un nido di maganin; qui e qui e qui! Quanti erano? Quali gruppi? Dove? Ti hanno mangiato, sciocco!

— I maganin non si trovano a cinquantine!

— Ho vergogna. — Duun infilò le mani nella cintura del kilt e si allontanò.

— Duun…

Duun si voltò. Aveva le orecchie ritte. — Hai ricordato?

— No! No, non ho ricordato! Non riesco a ricordare! Non ricordo!

— Allora ho ancora vergogna. — Duun abbassò le orecchie, si voltò e si allontanò.

— Duun… - Duun non si voltò. Avvertì dietro di sé lacrime e rabbia: era la natura di Thorn.

Ed era nella natura di Thorn tornare a casa alla fine, quando era buio e Duun aveva acceso il fuoco e si era seduto sulla sabbia davanti al camino. Duun aveva cotto il cibo, aveva mangiato e aveva portato la cena di Thorn fuori, appoggiandola sui gradini. Thorn non si vedeva. Ma era nella natura di Thorn ammettere la sconfitta quando giungeva la notte.