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— Un hatani non ha parenti — disse Duun continuando a suonare. — Quando sarai hatani nel cuore, non mi avrai.

Il tamburo tacque. Ma non ci furono domande. Thorn si era tradito, e Duun non era andato oltre; Thorn tenne per sé quello che pensava. Col passare degli anni, essendo arrivato al punto in cui era arrivato, si era fatto molto più prudente. Duun seguitò a suonare, dolcemente. — Quando persi quasi tutta la mano, credetti di non potere più suonare. Invece ci riesco ancora. Ma persi altre cose. Non si acquista nessuna virtù da una perdita che non si conosce. Non ci sarà mai amore, Thorn. Mai. Conosci questa parola?… Prendi il ritmo.

Thorn lo prese, inclinando la testa fino a nascondere gli occhi.

— Ti dico una cosa — soggiunse Duun, al fievole ritmo delle corde che facevano da contrappunto al tamburo. — Rimane sempre qualcosa da perdere. Se pensi che non c’è più niente, sei uno sciocco, Thorn; c’è sempre qualcosa, finché non sei morto. E dopo… lo sanno gli dei. Sai quanti anni hai?

Thorn alzò gli occhi. Il ritmo si perse, riprese.

— Nella città lo sanno. Io lo so. I medici non vengono. Sono passati sei mesi dall’ultima volta. Sai perché, Thorn?

Un movimento della testa. No. C’era paura negli occhi del ragazzo.

— Bene — disse Duun — non vengono. Forse sanno cosa sei.

Il ritmo continuò, regolare come i battiti del cuore, e altrettanto doloroso.

— Cosa sono?

Duun lo guardò, con un’occhiata di sbieco. — Hatani. Come me. Auto-sufficiente.

Thorn si limitò a guardarlo, conoscendo i suoi trucchi. (Sporco Duun-hatani. Malvagio.)

— Hai una ferita, pesciolino. Sanguini nell’acqua. Lo sapevi?

Thorn strinse la mascella. I suoi occhi erano pieni di pensieri. — Non ho sentito il vento, Duun-hatani. Mi hai preso.

— …ancora.

— Medici.

Duun alzò lo sguardo.

— Hai parlato di medici, Duun, e di città. Cosa mi dici di queste cose?

— Oh. Il pesciolino vuole affrontare le acque fonde.

— Volevi dire qualcosa, Duun-hatani. Non dici mai niente che tu non voglia dire.

— Ancora più a fondo.

— Li hai chiamati. Vero?

— No. — La musica crebbe sotto le dita di Duun, poi mutò.

— Ti hanno chiamato loro.

— È stato Ellud.

— Perché?

— Per chiedermi come stavi. Gliel’ho detto: che tutto procedeva bene, che tu crescevi… sono stati contenti.

— Cos’è Ellud? Perché vuole sapere? Cosa vogliono i medici? Perché guardano sempre me e mai te?

— Ssss. C’è tempo. C’è ancora un po’ di tempo, no?

— Tempo per che cosa?

— Ssss. Sciocco. Cammina e respira insieme, non ci riesci?

Il ritmo riprese, cambiò, diventò un’altra cosa, forte e scattante.

— Mi sfidi? — Duun si lanciò in una questione più complessa.

Il ritmo lo seguì. — Tempo per che cosa? — chiese Thorn. Duun alzò le spalle.

— Per Sheon.

— La città? I medici? — gli occhi di Thorn si dilatarono. — Gli dei… ci vanno?

— Ti ho insegnato l’empietà? No. Ti ho insegnato a rispettare. Sei ancora un bambino. Che salto della mente. Ti ho forse detto di andare in città?

— Cosa vuoi dire… che c’è tempo?

— Questo. — E Duun s’abbandonò a un’altra melodia. — Un tempo pensavo che avresti potuto battermi, pesciolino. Pensavo che saresti venuto da me, nel sonno. Lealmente o slealmente, ti ho detto. Ci hai mai pensato?

— Ci ho pensato.

— Perché non l’hai fatto?

Esitò prima di rispondere. — Mi piace dormire, Duun-hatani.

— Ah.

Thorn gli rivolse un’occhiata guardinga. Duun sorrise, senza allegria. Così anche Thorn era diventato il bersaglio dello scherzo. Gli occhi del ragazzo, sbatterono, allarmati.

(Guarda il tuo sonno, pesciolino. Le regole sono cambiate.)

Thorn sorrise d’improvviso, cupamente, senza allegria, e complicò il battito del tamburo, introducendo cambiamenti irriverenti nelle canzoni hatani.

(Cos’è un hatani? Duun. Duun è Duun. Come il sole. Sei diventato Duun, pesciolino, e non chiedere mai cosa può essere Duun. Duun è gli alberi e la montagna, l’ambiente. Duun è la parola mantenuta. Canti la canzone. Ascolta le parole, Thorn, wei-na-mei, pesciolino nel mio ruscello.)

Thorn versò il tè, seduto a gambe incrociate sul rialzo nella stanza, davanti al fuoco. La mano gli tremava, e c’era un’ombra intorno al suo occhio, un livido dove nessuno l’aveva colpito. — Mangia — disse Duun, dall’altra parte. — Oggi devi scalare la montagna.

Forse Thorn pensò di protestare. Se così era, ci rinunciava. Ormai conosceva il gioco.

— Il filo nero — proseguì Dunn, sorseggiando il tè. — Attraverso la porta, ieri notte. È un vecchio trucco. Lo sapevi?

— No.

Duun sorrise e inghiottì un boccone. — Mangia mangia. Ti romperai il collo sulle rocce.

Thorn si riempì la bocca e ingoiò. Si era rasato e lavato. La notte prima si era svegliato con un coltello appoggiato al cuscino. — Sei morto — aveva sussurrato Duun, adagio adagio, la quinta notte in cui non dormiva.

Thorn si era alzato di scatto, aveva afferrato il polso di Duun e aveva perso anche quella battaglia, nel buio totale, nella confusione del sonno catturato per notti e notti a brandelli.

— Cerca di dormire oggi — disse Duun sorseggiando il tè. — Sarebbe una cosa saggia.

Thorn lo guardò con cupa costernazione.

Duun sorrise. — D’altro canto, forse è meglio di no. Vuoi dormire, pesciolino? Potresti farmi fuori adesso, faccia a faccia.

— No. C’è un sasso nella teiera, Duun-hatani.

Duun si fermò a metà della sorsata. Guardò la faccia smunta.

— Io non ho bevuto il tè — disse Thorn.

Dunn appoggiò la tazza sul rialzo, davanti alle gambe incrociate.

— Non farò la mia domanda — disse Thorn raucamente. — È stato sleale. Ti prenderò lealmente. Avvisandoti.

Duun fece un profondo respiro. Thorn era in tensione. Pronto ad affrontare un attacco. E Thorn tremava.

Per un lungo momento Duun non si mosse. Poi sollevò la mano sinistra adagio, in un gesto che voleva dire di non aspettarsi un attacco, e infilò le due dita della destra sotto la cintura.

Appoggiò il sasso sulla superficie liscia.

Thorn lo guardò. C’era solo quello. I suoi occhi si sollevarono stranamente limpidi.

— Te l’avrei dato prima che tu partissi — disse Duun. — Te l’avrei dato quando me l’avessi detto. Ma pesciolino, mi hai offerto demenza. Offrire questo a me…

— Mi dispiace, Duun.

— Quella del filo è stata un’idea intelligente. Cambiare le regole è stato ancora più intelligente. Poi l’orgoglio ti ha accecato, pesciolino, hai cambiato le regole. Capisci?

Ci fu un sussurro rauco. — Sì, Duun-hatani.

— Guardati da tutto, pesciolino. E non concedere mai clemenza a un hatani. La lealtà è un gioco per insegnare. La lealtà è un recinto che ho segnato. Avrei dovuto usare tutto ciò che conoscevo, scoraggiandoti? Adesso le barriere sono cadute, pesciolino. Cosa farai?

— Sarei uno sciocco se te lo dicessi, Duun-hatani.

Duun annuì adagio. Thorn prese la scodella per mangiare. Poi la rimise giù con un piccolo colpo del cucchiaio contro la scodella, e lo guardò.

— Sì — disse Duun. — È il caso che tu ti chieda cosa c’è nel cibo. Vero? Mangia, pesciolino. Ti concedo questa grazia. È sicuro.

Thorn si spostò indietro sul rialzo e tirò su le gambe. — Hai detto nessuna clemenza. Ti credo.

— E non quando ti ho detto che puoi mangiare?