— Casablanca — dissi, passando davanti ai turi che avevano deciso di mettersi in fila. Sbattei giù la mia carta di credito.
Il tizio mi guidò dentro. — Hai già in mente un lieto fine? — chiese.
— Ci puoi scommettere.
Mi fece sedere davanti al computer, un Wang dall’aria antica. — Quello che devi fare è premere questo pulsante e sullo schermo appariranno le tue possibilità di scelta. Poi premi su quella che vuoi. Buona fortuna.
Ruotai l’aereo di quaranta gradi, lo appiattii a due dimensioni, e così tornò a essere lo scatolone fasullo che era sempre stato. Non avevo mai visto una macchina per la produzione di nebbia artificiale. Mi accontentai di un motore a vapore, che sputò grandi ammassi di nubi gonfie. Diedi l’avanti veloce fino al campo medio di Bogie che diceva a Ingrid:
— Avremo sempre Parigi.
— Espandi il perimetro del fotogramma — dissi, e cominciai a far apparire i piedi di Ingrid e Bogie. Per rialzare Bogie, gli avevano attaccato alle scarpe grosse, massicce zeppe di legno e pezzi di…
— Ma che cavolo pensi di fare? — disse il tizio, rientrando in cabina di corsa.
— Sto solo cercando di dare una modesta iniezione di realismo alla faccenda — gli risposi.
Mi fece alzare dalla poltroncina e si mise a battere tasti. — Fuori di qui.
I turi che stavano in fila prima di me erano ancora davanti allo schermo, e attorno a loro si era radunata una piccola folla.
— L’aereo era di cartone e i meccanici addetti all’aereo erano nani — dissi. — Bogie era alto solo un metro e sessanta. Fred Astaire era figlio di un immigrato che faceva l’operaio in una fabbrica di birra. Aveva frequentato soltanto le elementari.
Il tizio riemerse dalla cabina. Era surriscaldato come il mio motore a vapore.
— Bogie ha dovuto girare diciassette volte una scena del film — dissi, avviandomi verso lo scivolo.
— Niente di tutto quello è reale. È solo un gioco di specchi.
SCENA: Esterno. Casa Hardy in inverno. Neve sporca sul tetto, sul prato, ammucchiata ai lati del sentiero d’accesso. Dissolvenza lenta sulla primavera.
Non ricordo di essere tornato a Hollywood Boulevard. So di essere andato ai party, sperando che Alis riapparisse sulla porta, ma non c’era nemmeno Hedda.
Nel frattempo, andai avanti a stuprare e saccheggiare e cercare roba facile da ripulire. Non ce n’era. Far passare la sbornia al dottore di Ombre rosse rovinò la scena del parto. Due ore ancora defunse senza Dana Andrews che trangugiava sorsate di whisky, e L’Uomo Ombra scomparve del tutto.
Richiamai il menu, in cerca di qualcosa che non contenesse sostanze che danno assuefazione, qualcosa di molto pulito e molto americano. Come i musical di Alis.
Non Carousel. Billy Bigelow era un beone. Come Ava Gardner in Showboat e Van Johnson in Brigadoon. Bulli e pupe? Niente da fare. Marlon Brando riusciva a spingere all’alcol anche la gente dell’Esercito della Salvezza. Gigi? Era pieno di liquori e sigari, per non parlare di La sera che inventarono lo champagne.
Sette spose per sette fratelli? Forse. Non aveva numeri col saloon o col raduno generale al bar. Magari un po’ di brandy di sidro nella costruzione del fienile o in casa; niente che non si potesse togliere con una velocissima cancellazione.
— Sette spose per sette fratelli — dissi al computer, e mi versai un po’ del bourbon che avevo comperato per Il gigante. Howard Keel arrivava in città, sposava Jane Powell, e i due ripartivano per le montagne sul carro di lui. Avrei anche potuto usare l’avanti veloce. Era molto improbabile che Howard tirasse fuori una fiasca e offrisse un sorso a Jane, ma continuai a guardare in tempo reale mentre lei cinguettava con Howard delle proprie speranze e dei propri sogni. Che si sarebbero infranti non appena lei avesse scoperto che doveva cucinare e tenere in ordine per i sei fratelli di lui. Howard incitò i suoi cavalli fasulli e si innervosì.
— Perfetto, Howard. Non glielo dire — gli dissi. — Tanto non ti ascolterà. Deve scoprirlo da sé.
Arrivarono alla casa. Mi aspettavo che come minimo uno dei fratelli avesse una pipa fatta con un tutolo, e invece no. Ci fu qualche baruffa, un’altra canzone, e poi calma totale fino alla costruzione del fienile.
Mi versai un altro bourbon e mi protesi in avanti, in cerca di tracce di vizietti caserecci. Jane Powell porgeva torte dal carro, e una brocca ricoperta di paglia che dovevo trasformare in una pentola di fagioli o qualcosa del genere; poi iniziò il numero della costruzione del fienile. Alis lo aveva chiesto la sera che ci eravamo conosciuti. — Avanti fino alla fine della musica — dissi, e poi: — Aspetta — che non era un comando, e quelli continuarono a ballare, si fermarono, e attaccarono a costruire il fienile a tempo di record.
— Stop. Indietro a 96 al secondo — e tornai all’inizio della danza. — Avanti in tempo reale — dissi, ed eccola lì. Alis. In abitino di percalle rosa e calze bianche, coi capelli illuminati da dietro raccolti a crocchia.
— Fermo immagine — dissi.
È l’alcol, pensai. Ray Milland che vede elefanti rosa in Giorni perduti. Oppure un qualche effetto del klieg, un flash ritardato o roba simile, capace di sovrimporre il viso di Alis a quello delle ballerine come era successo con le figure di Fred Astaire ed Eleanor Powell che ballavano sul pavimento lucido.
E con quale frequenza si sarebbe ripetuto? Tutte le volte che avessi incontrato un numero di ballo? Appena un viso o un fermacapelli o una gonna gonfia mi avessero ricordato quel primo flash? Togliere l’alcol dai film di Mayer era già abbastanza brutto. Probabilmente non sarei riuscito a sopportarlo, se avessi anche dovuto trovarmi davanti Alis.
Spensi lo schermo e lo riaccesi, come stessi tentando di eliminare un bug da un programma, ma lei era ancora lì.
Guardai la scena un’altra volta, scrutando il viso di Alis, poi diedi l’avanti veloce fino alla scena del rapimento delle mogli. La ballerina, che adesso aveva i capelli coperti da un cappellino, sembrava Alis e al tempo stesso non la sembrava. Corsi al numero successivo, con le ragazze che adesso ballavano in pantaloni e calzettoni bianchi; ma l’elemento decisivo di identificazione, qualunque fosse stato (i capelli, o la musica, o il gonfiarsi della gonna), era scomparso, e ora quella ballerina era solo una ragazza che somigliava ad Alis. Una ragazza che, a differenza di Alis, era riuscita a ballare nei film.
Passai in rassegna il resto del film con l’avanti veloce, ma non c’erano altri numeri di ballo e nessuna traccia di Alis, e tutto quello cos’era? Solo un’altra lezione, Andrew, sul fatto che non bisogna mischiare il bourbon con la tequila di Rio Bravo.
— Titoli di testa — dissi, e tornai indietro e cancellai la bottiglia nella scena della pensione e poi corsi a velocità tripla alla costruzione del fienile per trasformare la brocca in una teglia di pane appena sfornato, e poi pensai che fosse il caso di riguardarmi il resto della scena per accertarmi che non ci fossero altre tracce della brocca.
— Stampa e invia — dissi. — E avanti in tempo reale.
Ed eccola di nuovo lì. A ballare nei film.
CLICHÉ CINEMATOGRAFICO N. 15: I postumi della sbronza. (Di solito viene dopo il n. 14: Il party.) Emicrania, sussulti a ogni rumore forte, insofferenza per la luce del sole.
VEDERE: L’Uomo Ombra, Il fidanzato di tutte, Dopo l’Uomo Ombra, McLintock, Si riparla dell’Uomo Ombra, Scandalo a Filadelfia, Il canto dell’Uomo Ombra.