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— L’hai trovata in altri film? — mi chiese.

— Sei. E se non si è servita del viaggio nel tempo, deve essere entrata nello schermo come Mia Farrow. Perché non sono copia-e-incolla. E Mayer non c’entra.

— C’è un’altra spiegazione. — Il tono di Hedda era tutt’altro che felice. — Per un po’ tu sei rimasto completamente fuori. Uno dei film che ho visto parlava di un alcolizzato.

— Giorni perduti. Ray Milland. — Avevo già afferrato l’antifona.

— Quando beveva, aveva vuoti di memoria. Faceva cose che poi non riusciva a ricordare. — Hedda mi guardò. — Tu conoscevi la sua faccia. E avevi gli accessi.

DANA ANDREWS: [Chino sulla scrivania del sergente di polizia] Non è stata lei, glielo dico io.

BRODERICK CRAWFORD: Davvero? Allora chi è stato?

DANA ANDREWS: Non lo so, ma so che non può essere stata lei. Non è quel tipo di ragazza.

BRODERICK CRAWFORD: Be’, qualcuno è stato. [Socchiudendo sospettoso gli occhi] Magari è stato lei. Lei dov’era quando hanno ucciso Carson?

DANA ANDREWS: Stavo facendo una passeggiata.

Era la spiegazione più probabile. Io ero un esperto di copia-e-incolla. E la sua faccia mi era rimasta impressa nella mente da quando avevo avuto il flash. E avevo un accesso da dirigente di studio. Movente e occasione.

Desideravo Alis, e lei desiderava ballare nei film, e nel meraviglioso mondo della CG tutto è possibile. Ma se fossi stato io, non le avrei dato due miserabili minuti in un balletto. Avrei cancellato Doris Day e i suoi denti e permesso ad Alis di ballare davanti agli specchi di quella grande sala. Se avessi conosciuto il numero, il che non era. Non avevo mai nemmeno visto Tè per due.

Oppure “non ricordavo” di averlo visto. Subito dopo l’episodio dello scivolo, Mayer mi aveva accreditato i soldi per una mezza dozzina di western che non ricordavo di avere ripulito. Ma se fossi stato io, non l’avrei infilata in una di quelle stupide gonne gonfie. Non l’avrei fatta ballare con Gene Kelly.

Avevo messo un controlla-e-avverti su Fred Astaire e Cenerentola a Parigi. Lo spostai su Balla con me e chiesi un rapporto sulla causa. La decisione del tribunale era vicina, ma si attendeva una controazione legale, e anche la SSF stava pensando di intervenire.

La Società per la Salvaguardia dei Film. Registrava automaticamente ogni minimo cambiamento, e gli studios non avevano alcun controllo sulla Società. Mayer non era riuscito a farmi scavalcare tutti quei codici perché erano parte integrante del sistema di trasmissione via cavo a fibre ottiche. Se si trattava di un incollaggio, doveva risultare nei loro archivi.

Chiamai i file della SSF e chiesi i dati su Sette spose.

Leguleio. Mi ero dimenticato che c’era una causa in corso. — Cantando sotto la pioggia — dissi.

C’erano le cancellazioni che avevo fatto alla scena del party, assieme a un’altra che non era opera mia. — Fotogramma 9-106 — c’era scritto, con le coordinate e i dati. Il bocchino di Jean Hagen. Lo aveva fatto scomparire la Lega Antifumo.

— Tè per due. — Tentai di ricordare i numeri di fotogramma della scena del charleston, ma era superfluo. Sullo schermo non c’era scritto niente.

Col che restava il viaggio nel tempo. Mi rimisi al lavoro sui musical, ripetendo: — Il prossimo, per favore — ai numeri di conga e alle file di ballerini e a un orribile numero con un bianco che aveva faccia e mani tinte di nero. Incredibile che nessuno lo avesse ancora cancellato. Alis era in Cancan e in Susanna agenzia squillo, entrambi girati nel 1960. Non mi aspettavo di trovare molto dopo quella data. In quegli anni, il musical era diventato una faccenda da grandi budget, il che significava acquistare i diritti degli spettacoli di Broadway e farli interpretare sullo schermo da campioni d’incasso come Audrey Hepburn e Richard Harris, cioè gente che non sapeva né cantare né ballare, e per nascondere quella verità i numeri musicali venivano semplicemente eliminati. Dopo di che, il musical si era dedicato alle grandi questioni sociali. Come se fosse stato necessario piantare qualche altro chiodo sulla bara.

Però nei musical degli anni Sessanta e Settanta c’era una bella quantità di alcol, anche se c’era poco ballo. Un padre marcio di gin in My Fair Lady, una squinzia marcia di gin in Oliver, un intero branco di minatori marci di gin in La ballata della città senza nome. E poi saloon, birra, whisky, liquoracci da due soldi, un Lee Marvin che crollava a terra sbronzo (il quale Marvin non sapeva né cantare né ballare, ma del resto non sapevano farlo nemmeno Clint Eastwood o Jean Seberg, e chi se ne frega? C’è sempre il doppiaggio). Gli anni Venti inzuppati di gin in un film di Lucilie Ball (che non sapeva nemmeno recitare; l’apice della depravazione), Mame.

E Alis come ballerina di fila in Addio mister Chips e Il boyfriend. Eseguiva la tapioca in Millie, sgambettava al ritmo di Put on Your Sunny Clothes in Hello Dolly!, in vestitino azzurro cielo e parasole.

Andai a Burbank. E magari il viaggio nel tempo era possibile. Erano trascorsi per lo meno due semestri, ma gli studenti erano ancora lì. E Michael Caine teneva la stessa lezione.

— Sono state prospettate molte ragioni per spiegare la fine del musical — stava intonando. — L’escalation dei costi di produzione, le complicazioni tecnologiche create dallo schermo panoramico, la scarsa fantasia negli allestimenti dei numeri. Ma la vera ragione è più profonda.

Io restai sulla soglia ad ascoltare il suo elogio funebre, mentre gli studenti prendevano rispettosi appunti sui loro palmtop.

— La morte del musical non è dovuta a catastrofi di regia e di cast, ma a cause naturali. Semplicemente, il mondo ritratto dal musical non esisteva più.

Il monitor che Alis aveva usato per provare era ancora lì, come le sedie ammonticchiate, solo che adesso ce n’erano molte di più. Michael Caine e gli studenti erano pigiati in uno spazio troppo stretto per una beguine, e le sedie non erano state mosse da un pezzo. Erano coperte di polvere.

— Il musical degli anni Cinquanta dipingeva un mondo di speranze innocenti e innocui desideri. — Caine borbottò qualcosa al computer, e apparve Julie Andrews, seduta sul fianco di una collina con chitarra e bambini assortiti. Strana scelta per la sua tesi dei “tempi più semplici”, visto che il film era stato girato nel 1965, l’anno dell’intervento americano in Vietnam. Per non parlare del fatto che era ambientato nel 1939, in piena era nazista.

— Erano tempi più solari, meno complicati, tempi in cui il lieto fine era ancora credibile.

Lo schermo mostrò Vanessa Readgrave e Franco Nero, circondati da soldati con torce e spade. Camelot. — Quel mondo idilliaco è morto, e con esso il musical hollywoodiano, che non risorgerà mai.

Aspettai che gli allievi fossero usciti e lui si fosse fatto la sua fiutata di neve, poi gli chiesi se sapesse dove fosse Alis, per quanto lo ritenessi inutile: lui non l’avrebbe mai aiutata, e l’ultima cosa di cui Alis potesse avere bisogno era qualcun altro pronto a ripeterle che il musical era morto.

Lui non se la ricordava nemmeno, neanche dopo che lo ebbi ammorbidito con la chocha, e si rifiutò di darmi l’elenco degli studenti che avevano seguito il corso con Alis. Potevo ottenerlo da Hedda, ma non volevo scatenare la sua commiserazione, farle pensare di essere impazzito. Charles Boyer in Angoscia.