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Tornai alla mia stanza, tolsi da Carousel le bevute di Billy Bigelow e metà della trama, poi andai a letto.

Mezz’ora dopo il computer mi destò da un sonno profondo con un casino come quello del reattore di Sindrome cinese. Barcollai fino allo schermo e restai a sbattere le palpebre per cinque minuti buoni prima di rendermi conto che era il controlla-e-avverti. Quindi Sette spose non doveva più essere conteso. Mi occorse un altro minuto per capire quale comando dovessi dare.

Non si trattava di Sette spose. Si trattava di Fred Astaire, e la decisione della corte stava scorrendo sullo schermo: RICHIESTA DI PROPRIETÀ INTELLETTUALE RESPINTA, RICHIESTA DI FORMA D’ARTE NON RIPRODUCIBILE RESPINTA, RICHIESTA DI PROPRIETÀ SUL LAVORO ESEGUITO IN COLLABORAZIONE RESPINTA. Il che significava che gli eredi di Fred e la RKO-Warner dovevano avere perso, e che l’ILMGM, dove Fred aveva trascorso tanti anni a rimediare alle pecche di partner che non sapevano ballare, aveva vinto.

— Balla con me — dissi, e guardai iniziare la beguine esattamente come la ricordavo: stelle e pavimento lucido ed Eleanor in bianco, a fianco di Fred.

Non lo avevo mai guardato da sobrio. Avevo creduto che il silenzio, l’aria rapita, quella sensazione di immobile bellezza fossero effetto del klieg, ma non lo erano. Ballavano agili, leggeri, su un pavimento nero e lucido, con le mani che arrivavano appena a sfiorarsi, ed erano muti e immobili come la sera in cui ero rimasto a osservare Alis che li guardava. Erano la realtà del ballo.

E quel mondo innocuo, innocente, non era mai esistito. Nel 1940 Hitler bombardava a tappeto l’Inghilterra e deportava già ebrei sui carri bestiame. I dirigenti degli studios eseguivano manovre di corridoio contro la guerra e concludevano affari. Il vero Mayer dirigeva lo studio e le starlet si lasciavano scopare sul divano del produttore per una particina di cinque secondi. Fred ed Eleanor giravano cinquanta, cento ciak in uno studio caldo, senza aria, e tornavano a casa a mettere a mollo i piedi che sanguinavano.

Non era mai esistito quel mondo di pavimenti cosparsi di stelle e capelli illuminati da dietro e agili piroette, e il pubblico del 1940, guardandolo, sapeva che non esisteva. Ed era quello il suo fascino: non il fatto di riflettere “tempi più solari, meno complicati”, ma il fatto di essere impossibile. Il fatto di essere ciò che il pubblico desiderava e non avrebbe mai potuto avere.

Sullo schermo riapparve il leguleio. Il ricorso era già stato presentato, e io non avevo visto finire il numero, non lo avevo registrato su nastro o su disco.

Ma non importava. Quella era Eleanor, non Alis, e nonostante tutto ciò che potesse pensare Hedda, nonostante apparisse molto logico, non ero stato io a intervenire. Perché se lo avessi fatto, causa legale o no, avrei messo Alis lì, a ballare fianco a fianco con Fred, a girare la testa per rivolgergli quel sorriso deliziato.

SCENA DI MONTAGGIO: primissimo piano su uno schermo di computer. I titoli di testa si dissolvono l’uno nell’altro: South Pacific, Il trionfo della vita, Alla fiera per un marito, Musica indiavolata, L’allegra fattoria.

Dopo un po’ finii i film da guardare. Tornai a Hollywood Boulevard, ma nessuno si ricordava di lei e nessuno aveva un digitrasparente, a parte È Nata Una Stella, che aveva già chiuso con tanto di saracinesca. Le altre lezioni seguite da Alis erano state quelle sulla tecnologia della trasmissione via cavo a fibre ottiche, e la sua compagna di stanza, molto fatta, aveva l’impressione che Alis fosse tornata a casa.

— Ha messo tutto in valigia — disse. — Ha preso su tutta la roba che aveva, costumi e parrucche eccetera, e se n’è andata.

— Quanto tempo fa?

— Non so. L’altra settimana, mi sembra. Prima di Natale.

Parlai con la compagna di stanza cinque settimane dopo avere visto Alis in Sette spose. Al termine della sesta settimana avevo finito i musical. Non erano poi molti, e li avevo guardati tutti, fatta eccezione per quelli non disponibili per via di Fred. E di Ray Bolger, sul quale la Paramount chiese il copyright il giorno dopo la mia spedizione a Burbank.

La corte decise sul caso Russ Tamblyn, e così un bip mi svegliò nel cuore della notte per dirmi che qualcuno aveva ottenuto il diritto di stuprare e squartare Russ sul grande schermo. Richiamai la scena della costruzione del fienile e guardai anche West Side Story, per precauzione. Alis non c’era.

Riguardai il numero di Un giorno a New York e tutto Femmine bionde, convinto che contenesse qualcosa d’importante che mi stava sfuggendo. Era un remake di Gold Diggers of 1933, ma non era questo a tormentarmi. Richiamai tutti i numeri sullo schermo in ordine di difficoltà, dal più semplice al più difficile, probabilmente sperando di ricavare qualche indizio sulle mosse successive di Alis, ma non servì a niente. Sette spose per sette fratelli era la cosa più difficile che avesse fatto, e l’aveva fatta sei settimane prima.

Preparai un elenco dei film in base a data, casa di produzione e interpreti, poi eseguii un controllo incrociato dei dati. E per un po’ rimasi lì a fissare l’assoluta mancanza di risultati significativi. E gli schermi.

Bussarono alla porta. Mayer. Spensi gli schermi e cercai di pensare a un film da richiamare che non fosse un musical, ma mi si era svuotata la mente. — Scandalo a Filadelfia — dissi alla fine. — Fotogramma 115-010 — e urlai: — Avanti!

Era Hedda. — Sono venuta a dirti che Mayer è incazzato al fulmicotone perché non gli hai più mandato film. — Si mise a guardare lo schermo: la scena del matrimonio. Tutti quanti, Jimmy Stewart, Cary Grant, erano raccolti attorno a Katharine Hepburn, che aveva un grosso cappello e i postumi della sbronza.

— Corre voce che Arthurton farà arrivare un nuovo tizio, in teoria per dirigere l’Editing — disse Hedda — ma in realtà per fargli da assistente, nel qual caso Mayer è fuori.

Bene, pensai. Se non altro il macello finirà. Ma se Mayer fosse stato licenziato, io avrei perso il mio accesso e non avrei mai trovato Alis.

— Ci sto lavorando — dissi, e mi lanciai in una complessa spiegazione sul perché fossi ancora fermo su Scandalo a Filadelfia.

— Mayer mi ha offerto un lavoro — disse Hedda.

— Allora adesso che ti ha assunta come corpocaldo ti sta a cuore che non lo silurino, e sei venuta a raccomandarmi di darmi da fare?

— No. Non corpocaldo. Assistente ai set. Parto oggi pomeriggio per New York.

Era l’ultima cosa che mi aspettassi. Mi girai a guardarla e scopersi che indossava gonna e blazer. Hedda nella parte di una dirigente di uno studio.

— Parti? — ripetei, incredulo.

— Oggi pomeriggio. Sono venuta a darti il mio numero di accesso. — Tirò fuori un foglio. — È asterisco nove due punto otto tre tre — e mi porse il pezzo di carta.

Io lo guardai. Mi aspettavo il numero, ma era un elenco di titoli di film.

— In nessuno di questi c’è gente che beve — disse Hedda. — Corrispondono a circa tre settimane di lavoro. Per un po’ dovrebbero placare Mayer.

— Grazie. — Ero stupefatto.

— Betsy Booth colpisce ancora — disse lei.

Devo avere avuto l’aria di chi non capisce.

— Judy Garland. Love Finds Andy Hardy. Te l’ho detto che ho guardato un sacco di film. È per questo che ho ottenuto quel lavoro. L’assistente ai set deve conoscere tutti i set e i filmati di repertorio e gli ambienti e riuscire a ritrovarli per il techno. Così non se ne digitalizzano di nuovi e si risparmia memoria.

Indicò lo schermo. — Scandalo a Filadelfia ha una biblioteca pubblica, la redazione di un giornale, una piscina, e una Packard del 1936. — Sorrise. — Ricordi quando mi hai detto che i film ci insegnano a recitare la nostra parte e ci danno le battute da pronunciare? Avevi ragione. Però avevi torto sulla mia parte. Hai detto che era quella di Thelma Ritter, ma non è vero. — Agitò la mano in direzione dello schermo, del gruppo nuziale. — Era la parte di Liz.