Fissai le immagini pensoso, incapace per un momento di ricordare chi fosse Liz. La precoce sorellina di Katharine Hepburn? No, un minuto. L’altra reporter, la ragazza di Jimmy Stewart che aveva sofferto per tanto tempo.
— Ho interpretato Joan Blondell — disse Hedda. — Mary Stuart Masterson, Ann Sothern. La ragazza della porta accanto, la segretaria innamorata del suo boss, solo che lui non si accorge mai di lei, pensa che sia soltanto una ragazzina. Lui è innamorato di Tracy Lords, ma Joan Blondell lo aiuta lo stesso. È pronta a fare tutto per lui, pensino a guardare film.
Infilò le mani nelle tasche del blazer, e io mi chiesi quando diavolo avesse smesso di portare il vestito col top e i guanti di raso rosa.
— La segretaria gli resta fedele. Rimane al suo fianco e gli dà consigli. Addirittura lo aiuta nella sua storia d’amore, perché sa che alla fine del film lui si accorgerà di lei, si renderà conto di non poter andare avanti senza lei, capirà che Katharine Hepburn è la donna completamente sbagliata per lui e scoprirà di essere sempre stato innamorato della segretaria. — Hedda mi guardò. — Ma i film non sono la vita, giusto? — chiese tetra.
I suoi capelli non erano più biondo platino. Erano castano chiaro con le mèche. — Hedda… — dissi.
— Tutto okay. Ho già capito. È quel che succede a prendere troppo klieg. — Sorrise. — Nella vita reale, Liz deve togliersi Jimmy Stewart dalla mente, accontentarsi di essergli amica. Farò un provino per una nuova parte. Joan Crawford, magari?
Scossi la testa. — Rosalind Russell.
— Be’, come minimo Melanie Griffith. In ogni caso, io parto oggi pomeriggio, e volevo solo salutarti e farmi augurare buona fortuna.
— Sarai grande — le dissi. — Tra sei mesi sarai la proprietaria dell’ILMGM. — La baciai su una guancia. — Tu sai tutto.
— Già.
Si avviò alla porta. — Alla tua salute, ragazzo — disse.
La guardai scomparire in corridoio, poi rientrai nella stanza. Studiai l’elenco che Hedda mi aveva dato. Conteneva più di trenta film. Quasi una cinquantina. Quelli in fondo avevano qualche nota: “Fotogramma 14-1968, bottiglia sul tavolo” e: “Fotogramma 102-166, un’allusione alla birra”.
Avrei dovuto richiamare i primi dodici e spedirli a Mayer per calmarlo, ma non lo feci. Restai seduto sul letto a guardare l’elenco. Accanto a Casablanca Hedda aveva scritto: “Un caso disperato”.
— Ciao — disse Hedda dalla soglia. — Sono di nuovo Tess Truehart. — E restò lì, a disagio.
— Cosa c’è? — chiesi, alzandomi. — Mayer è tornato?
— Lei non è nel 1950. — Gli occhi di Hedda evitarono i miei. — È a Sunset Boulevard. L’ho vista.
— In Sunset Boulevard?
— No. Sullo scivolo.
Non in una linea temporale parallela. O in una terra fatata dove la gente penetra nello schermo e si infila nei film. Qui. Sullo scivolo. — Le hai parlato?
Lei scosse la testa. — Era mattina. L’ora di punta. Stavo tornando dal mio colloquio con Mayer e l’ho appena intravista con la coda dell’occhio. Lo sai com’è l’ora di punta. Ho cercato di raggiungerla in mezzo alla folla, ma quando sono riuscita a farmi strada lei era già scesa.
— Perché avrebbe dovuto fermarsi a Sunset Boulevard? L’hai vista scendere?
— Te l’ho detto, l’ho solo intravista tra la folla. Si trascinava dietro degli apparecchi. Ma deve essere scesa a Sunset Boulevard. È l’unica stazione alla quale ci siamo fermati.
— Hai detto che aveva degli apparecchi. Che tipo di apparecchi?
— Non lo so. Apparecchi. Te l’ho detto, l’ho…
— L’hai solo intravista. E sei sicura che fosse lei?
Hedda annuì. — Non volevo dirtelo, ma è difficile scrollarsi di dosso la parte di Betsy Booth. Ed è difficile odiare Alis, dopo tutto quello che ha fatto. — Gesticolò in direzione delle proprie immagini riflesse sugli schermi. — Guardami. Libera dalla chocha, libera dal klieg. — Si girò a fissarmi. — Ho sempre voluto essere nei film, e adesso ci sono.
Ripartì in corridoio.
— Hedda, aspetta — dissi, e me ne pentii subito. Avevo paura di incontrare, quando si fosse voltata, un viso colmo di speranza, e occhi gonfi di lacrime.
Ma quella era Hedda, che sa tutto.
— Come ti chiami? — chiesi. — Ho soltanto il tuo accesso, e ti ho sempre chiamato solo Hedda.
Lei mi sorrise con molta consapevolezza e molta tristezza. Emma Thompson in Quel che resta del giorno. — Mi piace Hedda — disse.
Movimento della macchina da presa fino a un campo medio: l’insegna della stazione LAIT. Scritte sullo schermo: LOS ANGELES ISTANTRANSITO a grandi lettere rosa vivo, SUNSET BOULEVARD in giallo.
Infilai in tasca il disco coi numeri di Alis e presi lo scivolo. Non c’era nessuno, a parte un gruppetto di turi con le orecchie da topo, una Marilyn molto fatta, ed Elizabeth Taylor, Sidney Poitier, Mary Pickford, Harrison Ford che emergevano l’uno dopo l’altro dalla nebbia dorata dell’ILMGM. Tenni d’occhio l’insegna, in attesa di Sunset Boulevard. Chissà che diavolo ci faceva Alis. Lì non c’era proprio niente, a parte la vecchia superstrada.
La Marilyn mi si avvicinò, traballante. Il suo vestito bianco col top era sporco, macchiato, e dietro un orecchio aveva un’impronta di rossetto.
— Vuoi farti una scopatina? — chiese. Non guardava me, ma Harrison Ford sullo schermo alle mie spalle.
— No, grazie — risposi.
— Okay — disse lei, docile. — E tu che ne dici? — Non aspettò che io o Harrison Ford le rispondessimo. Se ne andò e poi tornò indietro. — Sei il dirigente di uno studio?
— No, mi spiace.
— Io voglio essere nei film — disse lei, e ripartì.
Tenni gli occhi puntati sullo schermo. Ridiventò argenteo per un secondo, fra un trailer e l’altro, e io vidi me stesso: pulito, responsabile, sobrio. Jimmy Stewart in Mr. Smith va a Washington. Logico che Marilyn mi avesse scambiato per un dirigente.
Sull’insegna luminosa apparve la scritta SUNSET BOULEVARD e scesi. La zona non era cambiata. Continuava a non esserci niente, nemmeno i lampioni. La superstrada abbandonata incombeva scura al chiarore delle stelle. Vedevo in distanza, sotto uno degli svincoli, un falò.
Impossibile che Alis fosse lì. Doveva avere visto Hedda ed essere scesa per impedirle di scoprire quale fosse la sua vera destinazione. E qual era?
Era apparsa un’altra luce, un sottile fascio bianco che avanzava verso di me. Probabilmente svitati in cerca di vittime. Tornai allo scivolo.
La Marilyn era ancora lì. Seduta in mezzo al pavimento a gambe divaricate, frugava sul palmo della mano tra le pillole in cerca di chocha, klieg, o che altro. Le uniche attrezzature che servano a una battitrice libera, pensai, il che significava che qualunque cosa Alis stesse facendo, per lo meno non batteva; e mi resi conto di essermi sentito molto sollevato da quando Hedda mi aveva raccontato di avere visto Alis con quegli apparecchi, anche se non sapevo dove fosse. Se non altro, non si era messa a battere.
Erano le due e mezzo di notte. Hedda aveva visto Alis all’ora di punta; mancavano ancora quattro ore. Ammesso che Alis si recasse tutti i giorni allo stesso posto. Ammesso che non stesse semplicemente traslocando coi suoi bagagli. Ma Hedda non aveva parlato di bagagli. Apparecchi, aveva detto. E non poteva trattarsi di computer e monitor perché Hedda li avrebbe riconosciuti, e in ogni caso era roba leggera. Hedda aveva parlato di “trascinarsi dietro”. Cosa? Una macchina del tempo?