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La Marilyn si era alzata, spargendo capsule in giro, e, superata la striscia gialla, si stava dirigendo verso la parete sulla quale sfilava ancora la cavalcata di star dell’ILMGM.

— No! — strillai, e l’afferrai per il braccio, a una trentina di centimetri dalla parete.

Lei mi guardò. Aveva le pupille completamente dilatate. — È la mia fermata. Devo scendere.

— Hai sbagliato strada, Corrigan. — La feci ruotare su se stessa, verso l’uscita. L’insegna diceva BEVERLY HILLS, e come destinazione della Marilyn non mi pareva molto probabile. — Dove volevi scendere?

Lei scrollò via la mia mano, si girò di nuovo verso lo schermo.

— L’uscita è di là. — Puntai l’indice.

Lei scosse la testa e indicò Fred Astaire che stava emergendo dalla nebbia. — Voglio passare da lì — disse, e crollò a sedere. La gonna bianca si allargò a cerchio. Lo schermo diventò argenteo, rifletté la forma seduta della ragazza che stava tentando di pescare su un palmo vuoto; poi ricomparve la nebbia dorata. L’inizio dei promo dell’ILMGM.

Fissai la parete, che non sembrava una parete, o uno specchio. Sembrava quel che era, una nebbia di elettroni, un velo disteso sul vuoto, e per un minuto tutto mi parve assolutamente possibile. Per un minuto pensai: Alis non è scesa a Sunset Boulevard. Non è mai scesa dallo scivolo. Ha attraversato lo schermo, come Mia Farrow, come Buster Keaton, ed è arrivata nel passato.

Quasi potevo vederla in gonna nera e giubbetto verde e guanti. Scompariva nella nebbia dorata ed emergeva su un Hollywood Boulevard pieno di automobili e di palme e di sale prova con le pareti a specchio.

— Tutto è possibile — ruggì la voce fuori campo.

La Marilyn era di nuovo in piedi e si dirigeva verso la parete di fronte a me.

— Non da quella parte — dissi, e schizzai avanti.

Buon per lei che quella volta non si era avviata verso uno degli schermi. Non ce l’avrei mai fatta. Quando la raggiunsi stava picchiando con entrambi i pugni sulla parete.

— Lasciami scendere! — urlò. — È la mia fermata!

— L’uscita è da questa parte — le dissi, e cercai di strattonarla via, ma doveva avere in corpo roba micidiale. Il suo braccio era ferro.

— Devo scendere qui. — Si mise a picchiare coi palmi delle mani. — Dov’è la porta?

— La porta è di là. — Mi chiesi se anch’io fossi stato in quelle condizioni, la sera che Alis mi aveva riportato a casa da Burbank. — Di qui non si può scendere.

— Lei lo ha fatto — disse la Marilyn.

Mi girai a guardare la parete in fondo, poi di nuovo la ragazza. — Chi lo ha fatto?

— “Lei”. È passata diritta attraverso la porta. L’ho vista. — E la Marilyn mi vomitò in faccia.

CLICHÉ CINEMATOGRAFICO N. 12: La morale. Un personaggio asserisce l’ovvio, e tutti afferrano l’antifona.

VEDERE: Il mago di Oz, L’uomo dei sogni, Love Story, Ciao Pussycat.

Feci scendere la Marilyn a Wilshire e la portai al pronto soccorso. A quel punto si era quasi svuotata del tutto lo stomaco. Restai un po’ per assicurarmi che si facesse ricoverare.

— Sei sicuro di avere il tempo di farlo? — mi chiese. Adesso non somigliava poi troppo a Marilyn. Sembrava di più Jodie Foster in Taxi Driver.

— Sono sicuro. — Avevo tutto il tempo che volevo, adesso che sapevo dove fosse Alis.

Mentre lei riempiva moduli, io chiamai Vincent. — Ho una domanda — gli dissi senza preamboli. — E se uno prendesse un fotogramma e lo sostituisse con un fotogramma identico? Così si riuscirebbe a scavalcare i controlli del cavo?

— Un fotogramma identico? Che senso avrebbe?

— Sarebbe possibile?

— Suppongo di sì — rispose Vincent. — È per Mayer?

— Già. E se immettessi una nuova immagine che corrispondesse alla vecchia? I controlli se ne accorgerebbero?

— Corrispondere in che senso?

— Un’immagine diversa che sia la stessa.

— Sei fatto — disse Vincent, e chiuse.

Non importava. Sapevo già che i programmi di controllo non erano in grado di percepire la differenza. La cosa avrebbe richiesto troppa memoria. E, come aveva detto Vincent, che senso aveva sostituire un’immagine con un’altra perfettamente identica?

Aspettai che Marilyn fosse a letto, sotto una fleboclisi di ridigaine, poi tornai allo scivolo. Dopo LaBrea la stanza rimase completamente deserta, ma solo alle tre e mezzo riuscii a trovare la porta di servizio della sezione chiusa, e impiegai fino alle cinque passate per aprirla.

Per un po’ mi preoccupai all’idea che Alis l’avesse sbarrata dall’interno, ed effettivamente lo aveva fatto, ma senza volerlo. Un cavo a fibre ottiche era appoggiato alla porta, però dopo che ebbi forzato la serratura mi bastò spingere.

Lei era voltata verso la parete a schermo, che a quell’ora avrebbe dovuto essere spenta, solo che non lo era. Al centro dello schermo, Peter Lawford e June Allyson stavano dando una dimostrazione del varsity drag in una palestra piena zeppa di studenti universitari in abiti da sera e smoking. June portava un abito rosa e scarpe rosa con tacchi alti e pompon, come Alis. I capelli di tutte e due erano tagliati alla paggio.

Alis aveva sistemato il digitrasparente sopra la sua custodia. Accanto, sul pavimento, c’erano il miscelatore e il pixar. Il cavo a fibre ottiche correva lungo la striscia gialla, passava davanti alla porta e arrivava all’alimentazione dello scivolo. Spinsi via il cavo dalla porta, ma piano, per non scollegarlo, e socchiusi la porta quel tanto da poter vedere. Poi rimasi lì, nascosto a metà sulla soglia, a guardare Alis.

— Giù sulle calcagna — spiegò Peter Lawford — su in punta di piedi — ed eseguì un passo triplo. Alis, armata di telecomando, corse alla fine della canzone e si fermò all’inizio del ballo. Restò a guardare attentissima, contando i passi. Tornò indietro alla fine della canzone. Premette un pulsante e tutti si immobilizzarono a metà di un passo.

Veloce, con quelle stupide scarpe rosa a tacco alto raggiunse il retro dello scivolo, lontano dallo schermo, e premette il pulsante. Peter Lawford cantò: — Ecco come si fa.

Alis depositò il telecomando sul pavimento. Il suo vestito a gonna lunga frusciò quando lei si chinò. Poi, di corsa, tornò al segno che aveva tracciato sul pavimento. In piedi, oscurava completamente June Allyson, tranne che per una mano e per un minuscolo lembo della gonna rosa. Aspettò il suo momento.

Che arrivò. Alis si chinò sulle calcagna, si rialzò in punta di piedi, e si lanciò in un charleston. Alle sue spalle, con quel particolare angolo, June era come una gemella, un’ombra. Mi spostai nella posizione giusta per poterla vedere con lo stesso angolo del digitrasparente. June Allyson scomparve, restò soltanto Alis.

Mi ero aspettato che June Allyson venisse cancellata dallo schermo come era stato fatto con la principessa Leia per la turi grassa a È Nata Una Stella, ma Alis non stava girando un video per i parenti, non stava nemmeno tentando di proiettare la propria immagine sullo schermo. Stava semplicemente provando. Aveva collegato il digitrasparente al cavo a fibre ottiche tramite il processore perché era così che le avevano insegnato a usarlo sul lavoro. Dal punto in cui mi trovavo potevo vedere che la spia della registrazione era spenta.

Mi rintanai di nuovo sulla soglia. Alis era più alta di June Allyson, e la stoffa del suo vestito era di un rosa più luminoso di quello di June, ma l’immagine che il digitrasparente ritrasmetteva al cavo era la versione corretta, con colore e illuminazione e messa a fuoco regolati al punto giusto. E in alcuni di quei numeri di ballo, provati per ore e ore nella sezione chiusa al pubblico dello scivolo, eseguiti una e dieci e cento volte, l’immagine corretta era stata talmente simile all’immagine originale che i meccanismi di controllo non se n’erano accorti, talmente identica che l’immagine di Alis aveva scavalcato tutte le protezioni del sistema per arrivare direttamente alla fonte delle trasmissioni via cavo. E Alis era riuscita a fare l’impossibile.