Ho assistito al funerale dell’Uomo Bianco di Akagrak. Il corpo fu steso su una tavola di legno, dopo averlo spogliato; sul petto gli venne posta la pietra sacra della sua omedra e in ciascuna mano, stretta a pugno all’interno dello zoccolo, gli fu collocato un ciottolo nero. Quattro parenti portarono le spoglie fino al luogo dove si bruciano i corpi, camminando eretti. Tutti gli abitanti del villaggio li seguivano Camminando sulle quattro zampe. Era già pronta una grossa pira di tronchi e di sterpaglie e il corpo venne adagiato sulla sua cima.
Nelle vicinanze, ardeva già da almeno un’ora un fuoco più piccolo, di legna nodosa. Le persone prendevano con le mani nude i tizzoni e i pezzi di legno infuocati e li gettavano sulla pira, gridando e urlando in quella che sembrava collera pura, incontrollabile.
La nipote del morto continuava a ripetere: «Come hai potuto farmi una cosa simile? Come hai potuto andare a morire lontano? Non avevi alcun affetto per me! Non potrò mai perdonarti!»
Altri parenti e discendenti rimproveravano il morto perché non aveva pensato che loro gli volevano bene, perché li aveva abbandonati, perché era corso via quando avevano bisogno di lui, che era vissuto così a lungo e poi era morto lo stesso.
Molte di queste accuse e di questi rimproveri facevano chiaramente parte di un rituale ed erano tradizionali, ma erano gridati con una collera inconfondibile. La gente piangeva, si strappava via le cinture e gli ornamenti e, imprecando, li gettava nel fuoco, si strappava i capelli e il pelo delle braccia, si strofinava terra e cenere sulla faccia e sul corpo. Quando il fuoco si abbassava e minacciava di spegnersi, correvano a prendere altro combustibile e lo gettavano furiosamente sulle braci.
I bambini che piangevano ricevevano dagli adulti, con fastidio, una manciata di frutta secca e l’ingiunzione: «Fate silenzio! Mordetevi le labbra! Il nonno non vi ascolta! Il nonno vi ha abbandonato! Ormai siete degli orfani privi di valore!»
Al sopraggiungere della notte, finalmente alla pira fu concesso di spegnersi. Il corpo era stato consumato completamente. Non ci fu sepoltura per i pochi frammenti di osso rimasti nella cenere, ma la sacra pietra nera verme recuperata e collocata nuovamente nel suo tempio.
La gente, esausta, si trascinò fino al villaggio, sbarrò le porte per la notte e andò a dormire senza mangiare e senza lavarsi, con le mani ustionate e il cuore pieno di amarezza.
Non poteva esserci alcun dubbio: gli abitanti del villaggio erano orgogliosi del vecchio, perché è davvero una grande conquista, per un veksi, sopravvivere fino a diventare un Bianco, e alcuni di loro lo amavano sinceramente, ma i loro lamenti erano accuse, il loro dolore era collera.
LE STAGIONI DEGLI ANSAR
Dedicato agli Osprey di McKenzie Bridge che col loro modo di vivere mi hanno ispirato questo racconto.
Una volta ho avuto occasione di parlare a lungo con un vecchio ansar. L’ho incontrato all’Ostello Interplanario, costruito su una grossa isola, al largo del Grande Oceano Occidentale, lontano dalle rotte di migrazione degli ansar. È il solo luogo dove sia permesso l’accesso ai turisti di altri piani, oggigiorno.
Kergemmeg lavora laggiù come guida indigena e albergatore, per dare ai turisti un po’ di colore locale, perché il luogo è in tutto e per tutto un’isola tropicale, uguale a cento altre, di altri cento piani: piena di sole, ben ventilata, indolente, bellissima, con alberi dalle foglie simili a piume, sabbia d’oro e grandi onde verdeazzurro dalla chioma bianca, che s’infrangono sulla barriera corallina al margine della laguna.
I turisti vi vengono soprattutto per andare in barca a vela, pescare, raccogliere conchiglie e bere il fermentato, e non hanno ulteriori interessi per quel piano e per l’unico indigeno che incontrano laggiù. All’inizio lo guardano e gli scattano qualche foto, perché è una figura che colpisce: alto più di due metri, sottile, robusto, ossuto, un po’ curvo per l’età, con la testa stretta, occhi grandi e tondi, color nero e oro, e il becco.
La presenza di quest’ultimo rende la sua faccia completamente diversa dalle altre, impedendogli qualsiasi sfumatura espressiva, ma gli occhi e le sopracciglia di Kergemmeg rivelano assai chiaramente le sue emozioni. Anche se è vecchio, è un uomo dalle forti passioni.
Era un po’ stanco e privo d’interesse in mezzo ai soliti turisti privi di curiosità e quando ha scoperto in me un orecchio disposto ad ascoltarlo (certo non il primo e neppure l’ultimo, ma attualmente l’unico), si compiacque di parlarmi della sua gente, mentre sedevamo davanti a un alto bicchiere di ghiacciato, durante le serate lunghe e tiepide, nell’oscurità violacea tutta accesa dalla luce delle stelle, dal riflesso delle onde marine piene di creature luminose e dal luccichio pulsante dì nubi di lucciole, nell’alto dei rami degli alberi-piuma.
«Da tempo immemorabile», mi disse, «gli ansar hanno seguito una Via.» Madan la chiamava. La via della sua gente, la via di tutte le cose, la via nascosta nella parola sempre. Al pari del nostro termine, anche il suo conteneva tutti quei significati. «Poi ci siamo allontanati dalla nostra Via», continuò. «Per un breve periodo. Adesso torniamo a fare come abbiamo sempre fatto.»
La gente dice ogni volta: «abbiamo sempre fatto così», poi si scopre che il loro sempre significa una generazione o due, un secolo o due, al massimo un millennio o due. Le abitudini culturali e i costumi sono moneta spicciola, al confronto delle abitudini e del modo di comportarsi del corpo, della razza.
C’è davvero poco che gli esseri umani del nostro piano abbiano sempre fatto, a parte cercare il cibo e l’acqua, dormire, parlare, procreare, crescere i figli e probabilmente raggrupparsi insieme entro certi limiti.
In realtà si può vedere come nostra essenza umana il numero limitato di imperativi comportamentali da noi seguiti. Quanto siamo flessibili nel trovare nuove cose da fare, nuove vie da seguire. Come cerchiamo in modo ingegnoso, inventivo, disperato, la retta via, la giusta via, la Via (con la maiuscola) che riteniamo di avere perso molto tempo fa in mezzo al bosco delle novità, delle occasioni e delle scelte.
Gli ansar hanno dovuto effettuare una scelta un po’ diversa dalle nostre, forse un po’ più limitata. Ma ha il suo interesse.
Il loro mondo ha un sole più grande del nostro, ma è più lontano dall’astro, cosicché, anche se la sua inclinazione e il suo periodo di rotazione sono pressappoco quelli della Terra, il suo anno dura circa 24 dei nostri. E le stagioni sono analogamente lunghe e senza fretta, ciascuna dura sei dei nostri anni.
Su ogni piano che abbia una stagione corrispondente alla primavera, questa è il tempo della riproduzione, il periodo in cui nascono le nuove vite, e per creature la cui vita dura solo poche stagioni o pochi anni, l’inizio della primavera è anche il periodo dell’accoppiamento, in cui la nuova vita ha inizio. Così è per gli ansar, la cui vita dura, nei loro termini, tre anni.
Abitano su due continenti, uno situato sull’Equatore e un po’ più a nord del Tropico, e il secondo che si stende in direzione del Polo Nord. I due continenti sono uniti da un tratto di terreno stretto, lungo e montuoso, un po’ alla maniera delle due Americhe, anche se il tutto su una scala più piccola. Il resto del mondo è oceano, con alcuni arcipelaghi e qualche grande isola, nessuna abitata tranne quella occupata dall’Agenzia Interplanaria.