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L’anno inizia, mi raccontò Kergemmeg, quando nelle città del sud, in mezzo a quelle pianure desertiche, i Sacerdoti dell’Anno danno l’annuncio e grandi folle si radunano per vedere il sole fermarsi sulla cima di una certa torre o colpire con un dardo di luce, all’alba, un certo punto-bersaglio: il momento del solstizio. Da quell’istante in poi l’aumento della temperatura inaridirà i pascoli del sud, le praterie di cereali selvatici; nella lunga stagione asciutta i fiumi si abbasseranno e i pozzi delle città si prosciugheranno. La primavera segue il sole verso il nord, sciogliendo la neve di quei lontani monti, rallegrando di verde le valli. E gli ansar seguono il sole.

«Bene, io me ne vado», si annunciano l’un l’altro i vecchi amici, nelle strade delle città. «Ci si vede!» E i giovani, coloro che si avvicinano a compiere il primo anno — per noi ne avrebbero ventuno o ventidue — lasciano l’abitazione e gli amici, gli ostelli universitari e i club sportivi e vanno alla ricerca dell’uno o dell’altro genitore, dal quale si erano separati l’estate precedente, in mezzo al labirinto di complessi di appartamenti, di refettori comuni e di alberghi cittadini.

Arrivano come per caso e dicono con indifferenza: «Ciao, babbo», oppure: «Ciao, mamma. Pare che tutti facciano ritorno al nord».

E il genitore, attento a non insultarlo, offrendosi di guidarlo lungo la strada percorsa quando il giovane aveva la metà dei suoi anni, dice: «Sì, l’avevo pensato anch’io. Sarebbe bello averti con noi, tua sorella è nell’altra stanza, prepara la roba che dobbiamo portar via».

E così, a uno a uno, a coppie, a tre la volta, la gente lascia la città. L’esodo è un procedimento lungo, privo di qualsiasi ordine. Alcune persone partono poco dopo il solstizio; altre commentano su di loro: «Oh, quanta fretta», oppure: «Shennenne deve andare via presto per poter riprendere la vecchia casa».

Alcune persone si fermano in città finché non è quasi vuota, ma anche allora non si decidono a lasciare le strade roventi e silenziose, le piazze tristi, prive di ombra, che per un’intera metà del lungo anno erano state piene di gente e di musica. Ma prima o dopo, tutti si avviano lungo le strade che portano a nord. E, una volta partiti, viaggiano in fretta.

Quasi tutti hanno con sé soltanto quanto possono portare in uno zaino o caricare su un ruba (dalla descrizione di Kergemmeg, i ruba sono una sorta di asinelli coperti di piume). Alcuni dei commercianti che si sono arricchiti durante la stagione invernale partono con intere carovane di ruba, carichi di beni e di oggetti preziosi.

Anche se la maggior parte della gente viaggia da sola o in piccoli gruppi familiari, sulle strade i gruppi si susseguono a brevissima distanza tra loro. Gruppi più grandi si formano provvisoriamente nei luoghi dove il cammino è difficoltoso e le persone più vecchie e deboli hanno bisogno d’aiuto per raccogliere il cibo.

Nel tragitto che porta al nord non ci sono bambini.

Kergemmeg non sapeva dire il numero di ansar esistenti, ma pensava che ammontasse a parecchie centinaia di migliaia, forse un milione. E tutti prendono parte alla migrazione.

Quando giungono nelle montuose Terre di Mezzo, non si riuniscono, ma si separano per seguire centinaia di sentieri diversi, alcuni percorsi da molte persone, altri da poche, alcuni segnati chiaramente, altri così enigmatici che solo le persone che vi sono già passate sono in grado di riconoscerne il percorso.

«In quei casi è bene avere con sé una persona di tre anni», commentò Kergemmeg a questo punto della narrazione. «Qualcuno che abbia già compiuto due volte il tragitto.»

Viaggiano molto leggeri e molto in fretta. Consumano ciò che cresce spontaneamente dal terreno, tranne nelle regioni più alte e asciutte della zona montuosa, dove, come mi disse: «Alleggeriscono lo zaino». E lassù, nei passi tra gli alti canyon, i ruba delle carovane dei mercanti, spinti allo stremo delle forze, cominciano a incespicare e a tremare, e alcuni muoiono per la stanchezza e il freddo. E se il mercante, nonostante tutto, cerca ancora di spingerli avanti, la gente, che percorre la strada accanto a lui, li libera del carico e li spinge via, e si libera anche delle proprie bestie.

I piccoli ammali si allontanano zoppicando e tornano a sud, in direzione del deserto. Le merci portate dagli animali finiscono sparse ai lati della strada, a disposizione di chi le vuole. Ma nessuno prende niente, tranne un po’ di cibo, se ne ha bisogno. Non vogliono pesi che li rallentino. La primavera — la dolce primavera — si avvicina alle vallate coperte di erba e alle foreste, ai laghi, ai fiumi cristallini del nord: tutti vogliono essere laggiù al suo arrivo.

Ascoltando Kergemmeg, pensai che se si fosse potuta osservare la migrazione dall’alto, vedere tutte quelle persone percorrere a piedi mille sentieri e mille piste, sarebbe stato come osservare la primavera di cento o duecento anni fa, sulla costa occidentale dell’America, quando ogni fiume, dal Columbia largo più di un chilometro al più piccolo ruscello, diventava rosso per la migrazione dei salmoni.

I salmoni si riproducono e muoiono quando raggiungono la loro meta, e anche una parte degli ansar torna a casa per morire: coloro che compiono la loro terza migrazione, i vecchi di tre anni, che per noi sarebbero ultrasettantenni. Alcuni di loro non riescono ad arrivare alla fine del percorso. Consumati dalle privazioni e dalla fatica del viaggio, rimangono indietro. Quando la gente incontra un vecchio, uomo o donna, seduto al margine della strada, scambia con lui qualche parola, lo aiuta a costruirsi un riparo, gli lascia in dono un po’ di cibo, ma non lo spinge a riprendere il viaggio. Se il vecchio è molto debole o è malato, possono aspettare una notte o due, finché un altro migrante non prende il loro posto. Se trovano un vecchio morto a fianco della strada, seppelliscono il corpo. Lo seppelliscono supino, con i piedi in direzione del nord, rivolto verso la sua casa.

«Ci sono moltissime tombe lungo le strade», mi disse Kergemmeg. «Nessuno è mai riuscito a compiere una quarta migrazione.»

I giovani, coloro che sono alla prima o alla seconda migrazione, camminano in fretta, si affollano sui passi più alti dei monti, poi si allontanano ancor più di prima sulle praterie, quando le Terre di Mezzo si allargano, a nord delle montagne. Quando arrivano alle Terre del Nord propriamente dette, le grandi fiumane di persone si sono ramificate in migliaia di rivoletti, deviando a est e ovest, sull’intero nord.

E quando arrivano in un ricco territorio di colline dove l’erba è già verde e gli alberi mettono le foglie, uno dei piccoli gruppi si ferma.

«Bene, siamo arrivati», dice la madre. «E. posto è questo.» Ha le lacrime agli occhi e ride con la risata bassa, crepitante della sua razza. «Shuku, ti ricordi di questo posto?»

E la figlia, che non aveva ancora mezzo anno quando ha lasciato quel luogo — circa undici anni, per noi — si guarda attorno, stupita e incredula, ride ed esclama: «Ma era molto più grande!»

A quel punto, forse Shuku osserva i prati, quasi familiari, del suo luogo di nascita fino alla casa del loro vicino, a malapena visibile, e si chiede se Kimimmid e suo padre, che le avevano raggiunte e si erano accampati con loro per alcune notti e poi erano proseguiti ad andatura più veloce della loro, fossero già arrivati, se fossero tornati a vivere laggiù e, se così era, chissà se Kimimmid sarebbe passato a salutare?

Infatti, le persone che erano vissute così ammassate, in una promiscuità ininterrotta che portava a socializzare facilmente, quando erano nelle Città Sotto il Sole, e avevano condiviso le stanze, i letti, il lavoro e il gioco, e avevano fatto tutto in gruppi, più o meno numerosi, adesso si sono separate, una famiglia si è staccata dall’altra, gli amici si sono allontanati, ciascuno ha raggiunto una piccola abitazione staccata dalle altre, laggiù nella pianura dei pascoli, o un po’ più a nord nella terra ondulata delle colline, o ancora più a nord nella terra dei laghi.