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Poco più tardi aveva rifatto il viaggio verso nord con il figlio e i nipoti. «Non ho sentito la mancanza di mia moglie, finché non sono ritornato a casa», mi disse, prosaicamente. «Ma fare ritorno nella nostra casa, vivere laggiù senza di lei, non era una cosa che riuscissi a fare. Poi ho sentito per caso che c’era bisogno di qualcuno per accogliere gli stranieri su quest’isola. Continuavo a pensare al modo migliore di morire e questo mi sembrava una sorta di compromesso. Un’isola in mezzo all’oceano, e non uno della mia razza presente… non era proprio vita e non era morte. L’idea mi divertiva. Così, sono qui.»

Aveva ben più di tre anni di Ansar; noi avremmo detto che andava per gli ottanta, anche se la sua età era rivelata soltanto dalle spalle leggermente curve e dal puro argento della sua cresta di penne.

La sera successiva mi raccontò della migrazione a sud, mi descrisse ciò che prova un uomo degli ansar quando i giorni tiepidi dell’estate settentrionale cominciano a indebolirsi e ad accorciarsi.

Il lavoro di mietitura è finito, il grano è stato chiuso in contenitori stagni per l’anno successivo, le radici commestibili, che aumentano lentamente di dimensione, sono state piantate perché crescano durante l’inverno e siano pronte per la primavera; i bambini sono diventati grandi, attivi, sempre più irrequieti e stanchi della vita domestica, sempre più desiderosi di allontanarsi e di fare amicizia con i figli dei vicini.

La vita è dolce, lassù, ma è sempre uguale, e l’amore per il lusso ha perso la sua urgenza.

Una notte, una notte senza stelle e con il gelo nell’aria, tua moglie, nel letto accanto a te, sospira e mormora: «Lo sai? Sento la mancanza della città». E ritorna a te in una grande ondata di luce e di calore: le folle, le strade lunghe e gli alti edifici, gremiti di gente, la Torre dell’Anno che le supera tutte in altezza, i campi sportivi illuminati dal sole, le piazze di notte, piene di luci, di lanterne e di musica, dove ti siedi ai tavolini dei caffè e bevi e continui a parlare fin quasi al mattino. I vecchi amici, gli amici a cui non hai pensato per tutto quel tempo. Anche gli estranei: da quanto tempo non vedi una faccia nuova? Da quanto tempo non senti una nuova idea, non hai un pensiero nuovo? È ora di tornare in città, è ora di seguire il sole!

«Cara», dice la madre, «non possiamo portare a sud tutta la tua collezione di pietre, limitati a scegliere quelle speciali», e la bambina protesta: «Ma le porterò io! Lo prometto!»

Costretta alla fine ad arrendersi, la bambina trova un posto particolare per le pietre, segreto fino al suo ritorno, senza immaginare che l’anno successivo, giunta nel luogo di nascita, non s’interesserà più della sua infantile collezione di pietre e senza accorgersi che ha già cominciato a pensare al grande viaggio e alle terre sconosciute che la attendono.

«La città: che cosa si fa nelle città? E ci sono collezioni di pietre?»

«Sì», le risponde il padre. «Nel museo. Collezioni molto belle. Ti porteranno a vedere tutti i musei, quando andrai a scuola.»

«Scuola?»

«Vedrai che ti piacerà», interviene la madre, con una certezza assoluta.

«La scuola è il periodo più divertente che esista al mondo», spiega la zia Kekki. «La scuola mi piaceva così tanto, che penso andrò a insegnare, quest’anno.»

La migrazione a sud è assai diversa da quella a nord. Non è una dispersione, ma un raggruppamento, una riunione. Non si svolge a caso, ma con ordine, ed è pianificata da tutte le famiglie di una regione con molti giorni d’anticipo. Si parte tutti insieme, in cinque, dieci, quindici famiglie e la notte si allestisce un accampamento comune. I viaggiatori portano con sé grandi quantità di cibo, in carretti a mano e carriole, utensili per cucinare, combustibile per accendere il fuoco nelle pianure dove non sorgono alberi, abiti pesanti per i passi montani, medicine per eventuali malattie lungo la strada.

Non ci sono vecchi nella migrazione a sud: calcolando con i nostri anni, nessuno che superi i settanta. Coloro che hanno già compiuto tre migrazioni rimangono indietro. Si riuniscono nelle fattorie o nelle piccole cittadine che sono cresciute attorno alle fattorie stesse, oppure attendono la fine della vita insieme al partner, o soli, nella casa dove hanno vissuto le primavere e le estati della loro vita. (Penso che Kergemmeg, nel dire che aveva seguito tutte le volte, meno una, la Via del suo popolo, intendesse dire che non era rimasto a casa ma era venuto all’isola.)

La «separazione invernale», come la chiamano, tra i giovani che vanno a sud e i vecchi che restano a casa è dolorosa. È stoica. È come deve essere.

Solo coloro che rimangono nel nord vedranno la bellezza dell’autunno nell’emisfero settentrionale, la lunga durata del crepuscolo azzurro, i primi sottili disegni del ghiaccio sui laghi. Alcuni di loro hanno lasciato quadri o lettere che descrivono queste visioni, a beneficio dei figli e nipoti che non rivedranno più. Molti muoiono ancor prima del lungo, lunghissimo periodo di oscurità e di gelo dell’inverno. Nessuno gli sopravvive.

Ogni gruppo di migranti, a mano a mano che scende verso le Terre di Mezzo, è raggiunto da altri che arrivano dall’est e dall’ovest. E la notte il bagliore dei fuochi da campo copre la grande prateria da un orizzonte all’altro. La gente canta attorno ai fuochi dei bivacchi, e i loro placidi cori restano come sospesi nell’oscurità, tra i fuochi dei falò e quelli delle stelle.

Nessuno corre, durante il viaggio verso sud. Camminano tranquillamente, senza percorrere molta strada ogni giorno, ma non si fermano a lungo. Quando arrivano ai piedi delle montagne, le grandi masse tornano a suddividersi sui numerosi sentieri diversi e si assottigliano, perché è preferibile essere in pochi, sui sentieri montani, anziché camminare in mezzo alla polvere e alla spazzatura lasciata dagli altri.

Sui monti e in occasione dei passi dove la strada è una sola, sono però costretti a riunirsi. Ne approfittano, si salutano allegramente e si offrono reciprocamente cibo, fuoco, riparo. Tutti sono gentili con i ragazzi piccoli, che faticano a salire sui ripidi sentieri montani e si spaventano per i precipizi; per aiutarli rallentano il passo.

E una sera, quando hanno ormai l’impressione di lottare con le montagne da un tempo infinito, attraversano un passo d’alta quota, in mezzo a pareti di roccia, e arrivano al belvedere. La Faccia del Sud, o il Monte Becco di Dio, o il Tor.

Lassù si fermano e guardano lontano, in basso, sulle pianure dorate del sud, illuminate dal sole, sui campi infiniti di grano selvatico, e su alcune pallide strisce rosse, le pareti e le torri delle Città Sotto il Sole.

Lungo la discesa procedono più in fretta. E consumano meno cibo, e la polvere che sollevano sul loro cammino è una grande nube dietro di loro.

Arrivano infine alle città — ce ne sono nove e Keter è la più grande — che sono piene di sabbia e di silenzio sotto la luce del sole. Vi entrano dalle vie e dalle porte, ne riempiono le strade, accendono le lanterne, prelevano l’acqua dai pozzi pieni fino all’orlo, sistemano i loro giacigli nelle stanze vuote, gridano da una finestra all’altra e da un tetto all’altro.

La vita nelle città è così diversa da quella nelle campagne che i bambini non riescono a crederlo. Sono turbati e dubbiosi; la disapprovano. È troppo rumorosa, si lamentano. Fa caldo. Non si riesce mai a stare soli, dicono; piangono, le prime notti, per la nostalgia di casa. Ma vanno a scuola non appena si organizzano i corsi scolastici e laggiù trovano tutti i ragazzi della loro età, anch’essi turbati, dubbiosi e pieni di disapprovazione, ma anche timidi, ansiosi ed emozionati.

Quando erano ancora a casa hanno imparato a scrivere, a leggere e a far di conto, nello stesso tempo in cui imparavano falegnameria e agricoltura, grazie all’insegnamento dei genitori; ma nelle città ci sono corsi specializzati, biblioteche, musei, gallerie d’arte, concerti, insegnanti d’arte, di letteratura, di matematica, di astronomia, di architettura, di filosofia, ci sono sport di ogni genere, partite, atletica, e in un posto o nell’altro della città c’è ogni notte un ballo in cerchio, e soprattutto ci sono tutte le altre persone del mondo, affollate entro quelle pareti gialle, tutte che s’incontrano e parlano e lavorano e pensano insieme, in un interminabile fermento di menti e occupazioni.