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«Ma le donne uscirono dalle fattorie e parlarono agli uomini», continuò. «Dissero di ascoltare anche loro, e non solo i Bayder. Forse le donne non provano vergogna come gli uomini. Forse la loro vergogna è diversa, più una cosa del corpo che della mente. Non davano molta importanza alle automobili e ai bulldozer, ma ne attribuivano molta alle medicine che avrebbero cambiato la nostra natura e alle leggi che imponevano agli uni un certo tipo di lavoro e alle altre un altro. Dopotutto, nella nostra specie, la donna dà alla luce il figlio, ma tutt’e due i genitori lo nutrono e lo crescono. Perché lasciare i bambini alla sola madre?

«Le donne lo domandarono a noi. Com’era possibile che una donna allevasse quattro figli? O più di quattro? Era inumano. E poi, nelle città, perché le famiglie dovevano rimanere unite? Il figlio non ha bisogno dei genitori, laggiù, e i genitori non hanno voglia di badare ai figli, hanno altro da fare… Le donne ne parlarono a noi uomini, e tutti insieme cercammo di farci capire dai Bayder.

«Ma essi ci risposero: ‘Tutto cambierà. Vedrete. Adesso non ragionate in modo corretto. È solo una conseguenza dei vostri ormoni, della vostra programmazione genetica, che noi correggeremo. A quel punto sarete liberi dei vostri modelli di comportamento irrazionali e inutili’.

«Noi rispondemmo: ‘Ma saremo liberi dai vostri modelli di comportamento irrazionali e inutili?’

«Gli uomini che lavoravano nel cantiere dell’autostrada cominciarono a buttare a terra gli attrezzi e ad abbandonare le grandi macchine che i Bayder ci avevano fornito. Dicevano: ‘A che ci serve questa strada quando ne abbiamo già mille, nostre?’ E tornarono nel Sud, lungo i vecchi sentieri e le antiche piste.

«Vedi, tutto questo successe — per nostra fortuna, penso — verso la fine di una stagione del Nord. Lassù, dove viviamo isolati, e gran parte della nostra vita trascorre nel corteggiamento, nel fare l’amore e nell’allevare i figli, noi siamo, non so come dirlo, più impressionabili, più vulnerabili, e abbiamo la vista più corta. Avevamo appena iniziato a riunirci, all’epoca. Ma quando giungemmo a Sud, quando fummo tutti insieme nelle Città Sotto il Sole, potemmo raggrupparci, discuterne tra noi, consigliarci reciprocamente e ascoltare le altrui obiezioni per decidere che cosa fosse meglio per noi, intesi come un’unica razza.

«Dopo avere fatto questo e avere nuovamente parlato con i Bayder e avere lasciato che dicessero la loro, convocammo un Gran Consiglio, come quelli di cui si parla nelle leggende e nelle antiche cronache conservate nelle Torri dell’Anno, dove teniamo i nostri documenti storici. Ciascun ansar si recò alla Torre dell’Anno della sua città e diede il proprio voto: ‘Dobbiamo seguire la Via dei Bayder o la nostra Manad?’ Se avessimo scelto di seguire la loro Via, sarebbero rimasti tra noi; se avessimo scelto la nostra, se ne sarebbero andati. Noi scegliemmo la nostra Via.» Il suo becco batté piano, mentre rideva soddisfatto. «Io avevo già mezzo anno, all’epoca, e votai con gli altri.»

Non c’era bisogno di chiedergli come avesse votato. Gli domandai invece se i Bayder avessero accettato di andarsene.

«Alcuni di loro protestarono, altri ci minacciarono», mi spiegò. «Ci parlarono delle loro guerre e delle loro armi. Sono certo che avrebbero potuto distruggerci dal primo all’ultimo, ma non lo fecero. Forse ci disprezzavano così profondamente da non fare neppure quello sforzo. Oppure fu una delle loro guerre a richiamarli indietro.

«A quell’epoca avevamo ormai ricevuto anche la visita di alcuni funzionari dell’Agenzia Interplanaria e probabilmente fu grazie al loro intervento che i Bayder ci lasciarono in pace. E tanti di noi erano allarmati: con un’altra votazione decidemmo di non accogliere ulteriori visitatori. Perciò adesso l’Agenzia li fa venire solo su questa isola. Non so se la nostra scelta sia stata quella giusta: a volte mi pare di sì, a volte ho dubbi. Perché avere paura delle altre razze, delle altre Vie? Non possono essere tutte come i Bayder.»

«Penso che abbiate fatto la scelta giusta», gli assicurai. «Ma lo dico, anche se la mia volontà sarebbe un’altra. Sarei desiderosa di vedere una donna ansar, di vedere i vostri bambini, di vedere le Città Sotto il Sole! Desidererei moltissimo vedere le vostre danze!»

«Oh, be’, quelle le puoi vedere», mi rispose. Forse avevamo bevuto più del solito, quella sera.

In piedi sulla veranda che dava sul mare, nell’oscurità interrotta dal riflesso delle stelle sull’acqua, mi parve altissimo. Raddrizzò le spalle, piegò all’indietro il collo. La cresta che aveva sul capo si sollevò lentamente, fino a formare una penna rigida, argentea alla luce delle stelle. Sollevò le braccia al di sopra della testa. La posa degli antichi ballerini spagnoli, fiera ed elegante, tesa e intensamente maschile. Non fece salti — dopotutto era un ottantenne — ma in qualche modo mi diede l’impressione di (saltare, poi mi rivolse un profondo, elegante inchino. Col beccò batté un ritmo a due tempi, rapido, pestò due volte i piedi, e li mosse velocemente, eseguendo una serie complicata di passi, mentre la parte alta del suo corpo rimaneva tesa e ritta. Infine abbassò le mani in un ampio gesto d’abbraccio, verso di me, che sedevo immobile, quasi terrorizzata dalla bellezza e dalla concentrazione della sua danza.

Infine si fermò e rise. Era senza fiato. Tornò a sedere e si passò la mano sulla fronte e la testa; ansimava un poco.

«Dopotutto», si scusò, «non è la stagione del corteggiamento.»

IL SOGNARE IN COMUNE DEI FRINTH

Molte delle informazioni di questo racconto sono tratte da Rassegna onirologica del Piano di Frinth, pubblicato dalla Mills College Press, e da conversazioni con studiosi e amici Frinth.

Sul Piano di Frinth, i sogni non sono proprietà privata. Un frinth nevrotico non ha bisogno di stendersi su un divano per raccontare i propri sogni a uno psicanalista, perché il dottore sa già quello che il paziente ha sognato la notte precedente, dato che anche il dottore lo ha sognato, e anche il paziente ha sognato quel che ha sognato il dottore, come pure ogni altra persona del vicinato.

Per sfuggire ai sogni altrui e per fare un sogno privato, segreto, il frinth deve vivere da solo nel deserto, e anche laggiù il suo sonno può essere invaso dalle strane visioni provenienti da animali come leoni, antilopi, orsi e topi.

Durante lo stato di veglia e per buona parte del loro sonno, i frinth sono sordi come noi. Solo i sognatori che sono nella fase REM del sonno possono prendere parte al sogno di altre persone che sono anch’esse in fase REM.

Il termine REM è l’abbreviazione di rapid-eye-movements, movimenti rapidi degli occhi, fenomeno ben evidente che si accompagna a questa fase del sonno; un altro suo segnale è la presenza di un ritmo caratteristico nel cervello, un’onda riscontrabile all’EEG, l’elettroencefalogramma.

La maggior parte dei sogni che ricordiamo si hanno durante la fase REM.

Il sonno REM dei frinth e quello delle persone del nostro pianeta hanno tracce EEG molto simili, anche se si notano alcune differenze significative, e in queste potrebbe esserci la chiave della capacità di condividere i sogni, caratteristica dei frinth.

Per condividere un sogno, i sognatori devono essere fisicamente a breve distanza tra loro. La distanza raggiunta dal sognatore frinth medio è circa quella raggiunta mediamente dalla voce umana. Un sogno può essere ricevuto facilmente nel raggio di un centinaio di metri, e parti e frammenti del sogno possono arrivare ancor più lontano. Un sogno forte in un luogo isolato può raggiungere senza difficoltà un paio di chilometri e anche più.

In una fattoria solitaria, i sogni di un frinth si mescolano solo con quelli del resto della famiglia, insieme a echi, sprazzi e immagini di quel che le mucche nella stalla e il cane sulla soglia ascoltano, fiutano e vedono nel sonno.