Nonostante sapesse dove si trovava, l’oscurità lo faceva sentire a disagio. Continuava a percepire rumori furtivi nelle tenebre, deboli suoni che gli facevano rizzare i capelli anche se sapeva bene che erano solo frutto della sua immaginazione. Alzò la tendina di bambù e strizzò gli occhi più volte fino a quando essi si abituarono alla luce.
Prese un fagotto di pelle scamosciata appoggiato accanto al materasso. Era legato con un pezzo di spago scuro. Disfece il nodo e srotolò i quattro morbidi stracci arrotolati uno dentro l’altro. Al centro del fagotto c’erano due grossi coltelli. Erano affilatissimi. Aveva dedicato molto tempo e molte attenzioni a quelle splendide lame taglienti. Quando ne prese una in mano avvertì una strana e meravigliosa sensazione, come se fosse stato il coltello di uno stregone, dotato di un’energia magica che ora si stava riversando su di lui.
Il sole del pomeriggio era scivolato oltre l’ombra della palma sotto la quale aveva posteggiato. La luce filtrava attraverso il parabrezza, sopra la sua spalla, e andò a colpire l’acciaio lucente: la lama del coltello scintillò.
Mentre fissava la lama, le labbra sottili si tesero in un sorriso. Nonostante l’incubo, quel sonnellino gli aveva fatto bene. Si sentiva rinvigorito e fiducioso. Ormai era assolutamente certo che il terremoto del mattino significasse per lui un completo successo a Los Angeles. Avrebbe trovato la donna. Avrebbe messo le mani su di lei. Quel giorno, o al massimo mercoledì. Mentre pensava al suo corpo caldo e morbido e alla sua pelle delicata, il sorriso si trasformò in un ghigno.
Martedì pomeriggio Hilary Thomas andò a fare spese a Beverly Hills. Verso sera, quando tornò a casa, posteggiò la sua Mercedes color caffè nel vialetto circolare di fronte alla porta d’ingresso. Ora che gli stilisti avevano finalmente deciso che le donne potevano tornare ad avere un aspetto femminile, Hilary aveva comprato tutto ciò di cui aveva sentito la mancanza durante l’epidemia di mascolinizzazione che negli ultimi cinque anni aveva colpito l’industria della moda. Dovette fare tre viaggi per svuotare il bagagliaio.
Mentre afferrava l’ultimo pacchetto ebbe la sensazione di essere osservata. Si allontanò dall’auto e guardò verso la strada. Il sole era già basso e stava tramontando in mezzo alle grandi ville e alle palme fronzute, tingendo tutto di una luce dorata. A mezzo isolato di distanza, due bambini stavano giocando in un giardino e un cocker spaniel con le orecchie morbide zampettava allegramente lungo il marciapiede. Per il resto, il quartiere era silenzioso e incredibilmente tranquillo. Sull’altro lato della strada erano parcheggiate due automobili e un furgone Dodge grigio fumo, ma sembrava non ci fosse nessuno a bordo.
A volte ti comporti come una stupida, si rimproverò Hilary. Chi vuoi che ti stia osservando?
Ma quando, dopo aver portato in casa l’ultimo pacchetto, uscì un’altra volta per mettere l’auto in garage, ebbe di nuovo la netta impressione che qualcuno la stesse osservando.
Più tardi, verso mezzanotte, mentre era a letto a leggere, Hilary sentì dei rumori provenire dal piano di sotto. Mise giù il libro e rimase in ascolto.
Erano suoni piuttosto decisi. In cucina. Vicino alla porta che dava sul retro. Proprio sotto la camera da letto.
Si alzò e si infilò una vestaglia. Era un modello molto avvolgente in seta blu che aveva comperato quel pomeriggio.
Nel primo cassetto del comodino c’era una calibro 32 automatica già carica. Ebbe un attimo di esitazione, ascoltò ancora per un momento i rumori provenienti dalla cucina e poi decise di prendere la pistola.
Si sentiva un po’ sciocca. Probabilmente erano semplicemente rumori di assestamento, degli scricchiolii abbastanza comuni in una casa. Però erano già sei mesi che abitava lì e non aveva mai sentito niente di simile, prima di allora.
Si fermò in cima alle scale e lanciò un’occhiata in basso, verso l’oscurità, esclamando: «Chi c’è?»
Nessuna risposta.
Stringendo la pistola, scese le scale e attraversò il soggiorno, col respiro affannoso e la mano che cominciava a tremarle un po’. Accese tutte le luci che incontrò sul cammino. Continuò a sentire degli strani rumori anche mentre si avventurava verso il retro della casa, ma quando entrò in cucina e accese le luci, si trovò immersa nel silenzio.
Non c’era nulla di strano. Il pavimento scuro in legno di pino. I mobili scuri con i piani in ceramica bianca scintillante. Bianchi ripiani immacolati. Pentole di rame lucido e utensili che pendevano dall’alto soffitto bianco. Non c’era nessuno e niente che lasciasse supporre la presenza di qualcuno prima del suo arrivo.
Rimase ferma sulla porta e aspettò che ricominciassero i rumori.
Niente. Solo il debole ronzio del frigorifero.
Alla fine passò accanto al blocco di mobiletti centrali e controllò la porta che dava sul retro. Era chiusa a chiave.
Accese le luci del giardino e alzò la persiana della finestra sopra il lavandino. All’esterno, la piscina lunga dodici metri scintillava sulla destra. Sulla sinistra c’era l’immenso roseto, con una decina di boccioli che brillavano come fossero di neon in mezzo alle foglie scure. Tutto appariva silenzioso e immobile.
Erano solo rumori di assestamento, pensò. Santo cielo, sto diventando una vecchia zitella fifona.
Si preparò un panino e lo portò di sopra insieme con una bottiglia di birra. Lasciò accese tutte le luci al pianterreno, per scoraggiare l’eventuale intruso: ammesso che ci fosse davvero qualcuno che voleva entrare.
Più tardi, si sentì stupida per aver lasciato tante luci accese.
Sapeva benissimo che cosa c’era che non andava. Il suo nervosismo era un sintomo del malessere definito io-non-merito-tutta-questa-felicità, un disturbo a livello mentale che conosceva ormai molto bene. Era venuta dal niente, dal nulla, e ora possedeva tutto. Inconsciamente, aveva paura che Dio potesse accorgersi di lei e decidere che non meritava tutto quello che aveva ottenuto. E allora tutto sarebbe finito. Tutto ciò che aveva accumulato sarebbe stato distrutto e spazzato via: la casa, l’automobile, i conti in banca… La sua vita assomigliava a un sogno, a una favola meravigliosa, troppo bella per essere vera e comunque troppo bella per poter durare.
No. Dannazione, no! Doveva smetterla di sminuirsi e comportarsi come se i risultati ottenuti fossero dovuti a un colpo di fortuna. La fortuna non c’entrava niente. Nata in una casa in cui abitava la disperazione, nutrita con l’incertezza e la paura al posto del latte e dell’amore. Odiata dal padre e appena tollerata dalla madre, cresciuta in un ambiente nel quale l’autocommiserazione e l’amarezza avevano distrutto qualsiasi forma di speranza, era ovvio che fosse diventata grande senza una reale fiducia in se stessa. Per anni aveva combattuto con un complesso di inferiorità. Ma ormai era tutto passato. Aveva seguito una terapia. Ormai era in grado di comprendere se stessa e non avrebbe lasciato che i vecchi dubbi si impadronissero nuovamente di lei. La casa, l’automobile e il denaro non le sarebbero stati strappati: se li meritava. Lavorava sodo e aveva un grande talento. Nessuno le aveva offerto un lavoro semplicemente perché era amica o parente di qualcuno; quando era arrivata a Los Angeles non conosceva nessuno. Nessuno l’aveva ricoperta di denaro solo perché era carina. Attirate dalla ricchezza dell’industria dello spettacolo e dal miraggio della celebrità, ogni giorno giungevano a Los Angeles moltissime donne affascinanti che, normalmente, venivano trattate peggio delle bestie. Lei era riuscita a raggiungere l’apice per una sola ragione: era un’ottima scrittrice, una lavoratrice instancabile, un’artista energica dotata di vivace immaginazione perfettamente in grado di creare film che avrebbero attirato molti spettatori. Si era guadagnata ogni singolo centesimo e nessuno aveva ragione di dubitarne.