«Quindi rilassati,» esclamò a voce alta.
Nessuno aveva cercato di intrufolarsi in cucina, era solo frutto della sua immaginazione.
Finì il panino e la birra, poi scese per spegnere le luci.
Dormì di un sonno profondo.
La giornata seguente fu una delle migliori della sua vita. Ma anche una delle peggiori.
Il mercoledì prometteva bene. Il cielo era completamente sereno. L’aria era tiepida e trasparente. La luce del mattino era quella tipica della California meridionale in determinati giorni dell’anno. Era una luce cristallina, forte eppure dolce, come i raggi del sole in un dipinto cubista, e dava l’impressione che, da un momento all’altro, nell’aria potesse aprirsi un varco, simile al sipario di un teatro, per rivelare un mondo completamente diverso da quello in cui si vive normalmente.
Hilary Thomas trascorse la mattinata in giardino. Il mezzo acro alle spalle della casa a due piani in stile neoispanico era coperto da una ventina di specie di rose diverse: aiuole, tralicci e siepi di rose. C’erano la Frau Karl Druschki, la Madame Pierre Oger, la rosa muscosa, la Souvenir de la Malmaison e un’ampia gamma di ibridi moderni. Il giardino era tutto un fiorire di rose bianche, rosse, arancio, gialle, rosa, porpora e persino verdi. Alcuni fiori avevano le dimensioni di un piattino, mentre altri erano così piccoli da passare attraverso un anello. Il prato vellutato era punteggiato di petali di tutte le sfumature.
Quasi tutte le mattine, Hilary trascorreva due o tre ore a lavorare in giardino. Per quanto potesse essere agitata prima di iniziare, ne usciva sempre completamente rilassata e in pace con se stessa.
Avrebbe certamente potuto permettersi un giardiniere. Poteva ancora contare sugli introiti derivanti dal suo primo film di successo, Pete, l’ambiguo, che era stato girato più di due anni prima e che si era rivelato un autentico capolavoro. Il nuovo film, Cuore gelido, uscito da meno di due mesi, stava riscuotendo un successo ancora maggiore. La villa di dodici locali a Westwood, accanto a Bel Air e Beverly Hills, era costata una cifra esorbitante, eppure Hilary l’aveva pagata in contanti solo sei mesi prima. Nell’ambiente dello spettacolo la definivano «un talento di scottante attualità». Ed era esattamente così che si sentiva. Calda. Bruciante. Infuocata dai progetti e dalle possibilità. Era una sensazione splendida. Era una sceneggiatrice dannatamente in gamba e avrebbe potuto assumere un esercito di giardinieri, se avesse voluto.
Si dedicava personalmente ai fiori e alle piante perché il giardino rappresentava un posto speciale per lei, quasi sacro. Il simbolo della sua fuga.
Era cresciuta in un appartamentino squallido in uno dei peggiori quartieri di Chicago. Se solo avesse chiuso gli occhi, persino in quel momento, in quel luogo, in quel giardino pieno di rose profumate, avrebbe potuto rivedere ogni singolo dettaglio della sua vecchia casa. Nell’atrio le caselle della posta erano regolarmente fracassate dai ladri che cercavano gli assegni della previdenza sociale. I corridoi erano stretti e male illuminati. I locali erano minuscoli e bui e i mobili vecchi e traballanti. Nella piccola cucina, la malandata stufa a gas rischiava di esplodere. Hilary era vissuta per anni con l’incubo di quella fiammella incerta e bluastra. Il frigorifero era ingiallito dal tempo; emetteva uno strano ronzio e il motore attirava quella che suo padre chiamava la «fauna locale». In piedi in mezzo allo splendido giardino, Hilary ricordò la fauna con cui aveva condiviso la propria infanzia e rabbrividì. Sebbene lei e la madre avessero sempre tenuto le quattro stanze accuratamente pulite e sebbene facessero largo uso di insetticida, non erano mai riuscite a sbarazzarsi degli scarafaggi perché quei dannati animali attraversavano le sottili pareti che li separavano dai vicini, decisamente molto meno amanti della pulizia.
Il ricordo più intenso della sua infanzia era rappresentato dalla vista di cui godeva dalla sua microscopica cameretta. Era lì che aveva trascorso molte delle sue ore solitarie, nascondendosi mentre i suoi genitori litigavano. Quella camera era il suo rifugio quando iniziavano le urla e le imprecazioni, ma anche quando fra i suoi genitori calava il silenzio più profondo. Da quella finestra non si vedeva niente di interessante: in pratica solo il muro di mattoni sporco di fuliggine che si ergeva dall’altro lato dello stretto vicolo che conduceva alla casa. La finestra non si poteva nemmeno aprire perché era stata sprangata. A dire la verità, era visibile anche una sottile fetta di cielo, ma solo appoggiando la faccia contro il vetro e alzando lo sguardo verso il tetto.
Nel desiderio spasmodico di fuggire dall’ambiente meschino in cui era cresciuta, Hilary aveva imparato a usare la propria immaginazione per vedere attraverso quel muro. Le bastava lasciar fluttuare la mente e tutt’a un tratto si ritrovava a contemplare una collina verdeggiante, oppure le onde dell’oceano, o ancora la cima delle vette immacolate. Ma la maggior parte delle volte immaginava un giardino, un posto incantato, sereno, con le siepi disposte ordinatamente e i tralicci traboccanti di rose. Nelle sue fantasie ricorrevano spesso mobili da giardino in ferro battuto verniciato di bianco. Alcuni ombrelloni a strisce colorate creavano zone d’ombra per ripararsi dai caldi raggi del sole. Le donne in lungo e gli uomini in abiti estivi sorseggiavano bevande ghiacciate conversando amabilmente.
E ora vivo in quel sogno, pensò. Quel mondo fantastico esiste davvero e mi appartiene.
Coltivare le rose e le altre piante, occuparsi di palme, felci, cespugli e decine di altre specie non era un lavoro gravoso. Anzi, un’autentica gioia. Lavorando in giardino si rendeva conto degli enormi progressi che aveva fatto.
A mezzogiorno ripose gli attrezzi da giardinaggio e fece la doccia. Rimase a lungo sotto l’acqua bollente, come se insieme con lo sporco e il sudore volesse lavare via anche quei terribili ricordi. In quel deprimente appartamento di Chicago, in quel minuscolo bagno, dove tutti i rubinetti perdevano e dove gli scarichi si intasavano almeno una volta al mese, non c’era mai stata acqua calda a sufficienza.
Consumò un pasto leggero sul patio chiuso da vetrate che si affacciava sulle rose. Mangiucchiando del formaggio e qualche fetta di mela, lesse i giornali del giro dello spettacolo, Hollywood Reporter e Daily Variety, che erano giunti con la posta del mattino. Nell’articolo di Hank Grant sul Reporter notò il suo nome in un elenco di personaggi del cinema e della televisione che compivano gli anni in quel giorno. Per avere solo ventinove anni, ne aveva fatta davvero molta di strada.
Quel giorno il comitato esecutivo della Warner Brothers avrebbe discusso della sua ultima sceneggiatura: L’Ora del Lupo. Entro sera avrebbero deciso se comperarla o rifiutarla. Hilary era tesa e desiderava ardentemente che il telefono squillasse, anche se temeva potesse portarle notizie sconfortanti. Quel progetto era la cosa più importante che le fosse mai capitata.
Aveva scritto la sceneggiatura senza la garanzia di un contratto, seguendo l’impulso, e aveva deciso di venderla solo a condizione di potersi occupare della regia e del montaggio finale. La Warner aveva già ventilato un’offerta da capogiro per la sceneggiatura se lei avesse riconsiderato le condizioni di vendita. Sapeva benissimo di avanzare grandi pretese, ma tenendo presente il suo successo come sceneggiatrice, tali richieste non erano assurde. La Warner avrebbe accettato le sue condizioni, seppure con riluttanza: avrebbe potuto scommetterci. Ma la questione cruciale riguardava il montaggio. Quell’onore, il potere di decidere esattamente che cosa presentare sullo schermo, l’autorità suprema su ogni singola scena e ogni minimo dettaglio o sfumatura del film, veniva di solito accordato a registi che avevano fatto incassare cifre record. Difficilmente tale compito spettava a registi di secondo piano, specialmente se si trattava di donne. La sua insistenza per avere il controllo totale del film avrebbe potuto mandare a monte l’intero affare.