Nella speranza di riuscire a non pensare alla Warner Brothers, Hilary trascorse il pomeriggio del mercoledì nel suo studio, che si affacciava sulla piscina. La scrivania era ampia, massiccia, in legno di quercia, con una decina di cassetti e una ventina di piccoli nascondigli. Sulla scrivania erano appoggiati diversi oggetti in cristallo Lallique che rifrangevano la morbida luce proveniente dalle due lampade di ottone. Cercò di concentrarsi sulla seconda stesura di un articolo che stava scrivendo per Film Comment, ma i suoi pensieri erano costantemente rivolti a L’Ora del Lupo.
Il telefonò squillò alle quattro e Hilary sobbalzò per la sorpresa anche se era tutto il pomeriggio che aspettava quella chiamata. Era Wally Topelis.
«Sono il tuo agente, piccola. Dobbiamo parlare.»
«Non è esattamente quello che stiamo facendo ora?»
«Voglio dire a faccia a faccia.»
«Oh. Allora ci sono brutte notizie.»
«Ho forse detto una cosa del genere?»
«Se fossero state piacevoli,» rispose Hilary, «me ne avresti parlato al telefono. A faccia a faccia significa solo che vuoi addolcire la pillola.»
«Sei la solita pessimista, piccola.»
«A faccia a faccia significa che vuoi stringermi la mano per convincermi che non è il caso di suicidarmi.»
«È davvero un bene che questo tuo lato melodrammatico non traspaia mai in quello che scrivi.»
«Se la Warner ha deciso di no, non hai che da dirlo.»
«Non hanno ancora deciso, agnellino mio.»
«Sono pronta al peggio.»
«Ma mi vuoi stare ad ascoltare? Non c’è ancora niente di definitivo. Siamo ancora in ballo e vorrei discutere la prossima mossa con te. Tutto qui. Non c’è niente di losco. Possiamo vederci tra mezz’ora?»
«Dove?»
«Io sono al Beverly Hills Hotel.»
«Alla Polo Lounge?»
«Naturalmente.»
Quando Hilary svoltò sul Sunset Boulevard, si rese conto che il Beverly Hills Hotel aveva un aspetto irreale, quasi fosse un miraggio che scintillava sotto il sole. L’imponente edifìcio faceva capolino in mezzo a palme enormi e vegetazione lussureggiante: una visione da fiaba. Lo stucco rosa non era appariscente come le pareva di ricordare. I muri sembravano trasparenti, come se scintillassero di una tenue luce propria. A modo suo, quell’albergo era elegante, un po’ decadente, certo, ma indubbiamente elegante. Davanti all’ingresso principale, dei valletti in divisa posteggiavano le automobili: due Rolls-Royce, tre Mercedes, una Stuts e una Maserati rossa.
Era lontano mille miglia dal povero quartiere di Chicago, pensò allegramente.
Quando entrò nella Polo Lounge, vide una mezza dozzina di attori e attrici del cinema, volti famosi, in mezzo a due pezzi grossi, ma non occupavano il tavolo numero tre. Di solito quello era considerato il posto più ambito dell’intero locale, dal momento che era situato di fronte all’entrata ed era il punto migliore per osservare ed essere osservati. C’era Wally Topelis a quel tavolo, perché era uno dei più importanti agenti di Hollywood e perché era riuscito a incantare il maître proprio come faceva con tutti quelli che incontrava. Era un uomo minuto ed elegante di circa cinquant’anni. Aveva una folta capigliatura bianca e luminosa. I baffi erano bianchi e ben curati. Aveva un’aria distinta, esattamente il tipo di persona che ci si aspettava di vedere al tavolo numero tre. Stava parlando al telefono che gli avevano portato appositamente. Quando vide Hilary avvicinarsi, concluse rapidamente la conversazione, riappese il ricevitore e si alzò in piedi.
«Hilary, sei splendida, come sempre.»
«E tu sei il centro dell’attenzione, come sempre.»
L’uomo fece una smorfia. Aveva la voce morbida e cospiratrice. «Immagino che ci stiano osservando tutti.»
«Credo.»
«Di nascosto.»
«Oh, certo.»
«Perché non vogliono far vedere che ci stanno guardando,» proseguì l’uomo allegramente.
Si sedettero e Hilary proseguì: «E anche noi non guardiamo per vedere se ci stanno guardando.»
«Oh, cielo, no!» Gli occhi azzurri sprizzavano allegria.
«Non vogliamo certo dar loro l’impressione di preoccuparci.»
«Per carità.»
«Sarebbe gauche.»
«Très gauche.» E scoppiò a ridere.
Hilary sospirò. «Non sono mai riuscita a capire perché un tavolo debba essere più importante di un altro.»
«Be’, io posso starmene seduto qui a farmi quattro risate, ma tutto sommato lo capisco,» rispose Wally. «Nonostante quello che credevano Marx e Lenin, l’animale uomo prospera grazie al sistema classista, almeno fino a quando tale sistema è basato sostanzialmente sul denaro e sul successo e non sul pedigree. Creiamo e alimentiamo sistemi classisti ovunque, persino nei ristoranti.»
«Pare che mi sia imbattuta in una delle famose filippiche alla Topelis.»
Arrivò un cameriere con un secchiello d’argento per il ghiaccio appoggiato su un piedistallo. Lo depositò accanto al tavolo, sorrise e se ne andò. Apparentemente Wally si era preso la libertà di ordinare per entrambi prima ancora che lei arrivasse. Ma non ritenne opportuno rivelarle che cosa avrebbero bevuto.
«Non una filippica,» precisò, «solo una constatazione. La gente ha bisogno dei sistemi classisti.»
«Perché?»
«Innanzitutto, è giusto che la gente abbia delle aspirazioni, dei desideri che vadano oltre i bisogni fondamentali di cibo e di un tetto, esigenze ossessive che li spingano a lottare per ottenere qualcosa. Se c’è un quartiere migliore, un uomo accetterà due lavori contemporaneamente per risparmiare abbastanza per comprarsi una casa in quella zona. Se un’automobile è meglio di un’altra, un uomo, oppure una donna, dal momento che non si tratta certo di una questione di sesso, lavorerà sempre di più per riuscire a permettersela. E se esiste un tavolo migliore nella Polo Lounge, chiunque venga qui vorrà essere sufficientemente ricco o famoso, o persino sufficientemente impopolare, per potersi sedere qui. Questo desiderio quasi maniacale per uno status genera la ricchezza, contribuisce al prodotto nazionale lordo e crea possibilità di lavoro. Dopotutto, se Henry Ford non avesse voluto diventare qualcuno, non avrebbe mai fondato la società che ora dà lavoro a decine di migliaia di persone. Il sistema classista è un motore che guida gli ingranaggi del commercio: è lui a mantenere alto il nostro tenore di vita. Il sistema classista fornisce un obiettivo all’individuo e regala al maître un senso di potere e superiorità che rende piacevole un lavoro altrimenti intollerabile.»
Hilary scosse la testa. «Comunque, il fatto di essere seduto al tavolo migliore non significa certo che sono automaticamente migliore della persona seduta al tavolo di fianco. Non rappresenta certo un successo.»
«È un simbolo del successo, della posizione sociale,» precisò Wally.
«Continuo a non capirne il senso.»
«È solo un gioco particolarmente complesso.»
«E tu sicuramente sai come giocare.»
L’uomo era raggiante. «E non dovrei?»
«Io non ho mai imparato le regole.»
«Eppure dovresti, agnellino mio. È decisamente stupido, ma utile nel mondo degli affari. A nessuno piace lavorare con un perdente. E tutti quelli che giocano vogliono avere a che fare con il genere di persona che può sedersi al miglior tavolo della Polo Lounge.»
Wally Topelis era l’unica persona di sua conoscenza che potesse chiamare una donna «agnellino mio» senza suonare esagerato o viscido. Anche se era un uomo minuto, con la corporatura di un fantino professionista, ricordava un po’ Cary Grant nel film Caccia al ladro. Aveva lo stesso stile: un modo di fare impeccabile ma mai pomposo; una grazia composta in ogni gesto, anche nei più banali; un fascino discreto; un’aria leggermente divertita, come se considerasse la vita un’eterna barzelletta.