«Dovevo rivederti.»
«E per quale motivo?»
L’uomo stava ancora sorridendo. Aveva uno sguardo inquietante, da predatore. Il suo era il ghigno del lupo prima di chiudere le fauci sul coniglio indifeso.
«Come ha fatto a entrare?» domandò Hilary.
«Bella.»
«Che cosa sta dicendo?»
«Sei così bella.»
«La smetta.»
«Stavo proprio cercando una come te.»
«Mi fa paura.»
«Sei veramente molto bella.»
Fece un passo verso di lei. In quel momento Hilary capì che cosa voleva quell’uomo. Ma era assurdo, impossibile. Perché mai un uomo della sua levatura sociale avrebbe dovuto percorrere migliaia di chilometri e rischiare ricchezza, reputazione e libertà per un breve attimo di sesso strappato con la forza?
Fece un altro passo.
Hilary si allontanò.
Violentata. Non era possibile. A meno che… Se aveva intenzione di ucciderla dopo la violenza, allora quell’uomo non avrebbe corso un grande rischio. Indossava i guanti. Non avrebbe lasciato impronte, nessuna traccia. E nessuno avrebbe creduto che un famoso e rispettato viticultore di St. Helena si fosse fatto tutti quei chilometri fino a Los Angeles per stuprare e assassinare una donna. E anche se qualcuno l’avesse ritenuto possibile, nessuno avrebbe mai pensato a Frye. La polizia non sarebbe mai arrivata a lui.
Frye continuava ad avvicinarsi. Lentamente. Inesorabilmente. A passi pesanti. Godendosi la tensione di quel momento. Il ghigno dipinto sul suo volto divenne più satanico quando si accorse che la donna cominciava a capire.
Hilary indietreggiò fino al camino in pietra; per un attimo pensò di afferrare uno dei pesanti attrezzi in ottone, ma si rese conto che non sarebbe stata abbastanza veloce per difendersi. Aveva di fronte un uomo forte, atletico, in perfetta forma fisica: le sarebbe stato addosso prima che potesse afferrare l’attizzatoio e lo colpisse su quella maledetta testa.
Frye chiuse le mani. Le nocche si fecero più pronunciate sotto gli aderenti guanti di pelle.
Hilary indietreggiò ancora e si trovò vicino a due sedie, al tavolino e al divano. Cominciò a spostarsi verso destra, cercando di interporre il divano tra lei e Frye.
«Hai dei capelli stupendi,» mormorò l’uomo.
Una parte di lei si chiese se per caso non stesse impazzendo. Quello non poteva essere lo stesso Bruno Frye che aveva conosciuto a St. Helena. Allora non aveva notato la benché minima traccia di quella follia che ora stravolgeva quel viso madido di sudore. Gli occhi dell’uomo erano grigi frammenti di ghiaccio e la gelida passione che riflettevano era sicuramente troppo mostruosa per poter rimanere nascosta quando l’aveva visto l’ultima volta.
Poi notò il coltello e quella vista fu come una ventata di calore che trasformò i suoi dubbi in vapore, scacciandoli dalla sua mente. Quell’uomo voleva ucciderla. Il coltello era agganciato alla cintura, sul fianco destro. Era infilato in un fodero aperto e poteva essere sganciato tirando semplicemente il perno metallico fissato a una sottile cintura in cuoio. In un secondo avrebbe potuto sfilare il coltello e tenerlo saldamente in mano; in due secondi avrebbe potuto affondarglielo nel ventre, tagliando la tenera carne e gli organi vitali e lasciando scorrere la preziosa riserva di sangue.
«Ti ho desiderata dal primo momento che ti ho visto,» dichiarò Frye. «Volevo averti.»
Il tempo sembrava essersi fermato.
«Sei un bel bocconcino,» continuò. «Veramente bello.»
Le sembrava di vivere in un film al rallentatore. Ogni secondo sembrava durare un’eternità. Lo guardò avvicinarsi come se fosse stata la creatura di un incubo, come se l’aria fosse improvvisamente diventata densa come uno sciroppo.
Nel momento in cui aveva visto il coltello si era sentita paralizzare. Si era bloccata, nonostante l’uomo continuasse ad avvicinarsi. Era l’effetto del coltello. L’aveva lasciata senza fiato, le aveva raggelato il cuore e le aveva fatto provare un incontrollabile tremore interno. Poche persone hanno il coraggio di usare un coltello contro un altro essere vivente. Più di ogni altra arma, evidenzia la delicatezza della carne, la terribile fragilità della vita umana; nel momento in cui distrugge, l’assassino vede fin troppo chiaramente la natura della sua stessa mortalità. Una pistola, una dose di veleno, una bomba, un oggetto smussato, una corda possono essere utilizzati in modo relativamente pulito e spesso anche a distanza. Ma l’uomo con il coltello deve essere preparato a sporcarsi e deve essere vicino alla vittima, così vicino da avvertire il calore sprigionato dalle ferite da lui stesso provocate. Ci vuole un particolare coraggio, o una certa follia, per squarciare un’altra persona e non provare repulsione di fronte al sangue caldo che scorre sulla propria mano.
Frye era sopra Hilary. Le mise una mano sul seno, lo premette e lo strinse attraverso la seta del vestito.
Quel contatto violento risvegliò Hilary dallo stato di trance nel quale era caduta. Allontanò la mano dell’uomo, si liberò dalla sua presa e corse dietro il divano.
La risata di Frye era calda, piacevole in modo sconcertante, ma gli occhi duri brillavano di una macabra luce di divertimento. Era uno scherzo demoniaco, il folle umorismo del diavolo. Frye voleva che lei si ribellasse, perché amava combattere.
«Vattene!» urlò la donna. «Esci!»
«Non voglio uscire,» rispose Frye, sorridendo e scuotendo la testa. «Voglio entrare. Oh, sì. Ecco che cosa voglio. Voglio entrare dentro di te, mia cara. Voglio strapparti quel vestito, spogliarti ed entrarti dentro. Completamente, fino a dove sei calda, bagnata, oscura e morbida.»
Per un attimo, la paura che le aveva trasformato le gambe in gelatina e l’aveva svuotata internamente si trasformò in un’emozione più forte: odio, rabbia, furore. La sua non era la collera ragionata di una donna nei confronti di un uomo che voglia con arroganza offendere la sua dignità e violare i suoi diritti; non era nemmeno la rabbia intellettuale scatenata dall’ingiustizia biologica e sociale di quella particolare situazione: era un sentimento molto più viscerale. Quell’uomo aveva invaso il suo mondo senza essere stato invitato, si era intrufolato nel suo rifugio: Hilary era in preda a una furia cieca che le annebbiava la vista e le faceva battere il cuore all’impazzata. Digrignò i denti emettendo un suono gutturale: inconsciamente, stava reagendo come un animale che affronta il nemico e contemporaneamente cerca di mettersi in salvo.
Dietro il divano c’era un tavolino basso di cristallo. Due statuette di porcellana alte circa mezzo metro facevano bella mostra sul ripiano. Hilary ne afferrò una e la scagliò contro Frye.
L’uomo si chinò d’istinto, schivando l’oggetto. La statuetta colpì il camino di pietra e finì in pezzi. Una pioggia di cocci e frammenti di porcellana cadde sul camino e sul tappeto.
«Riprovaci,» la sfidò Frye.
Hilary afferrò l’altra statuetta ed ebbe un attimo di esitazione. Guardò l’uomo attraverso gli occhi socchiusi, soppesò il soprammobile, poi fece finta di tirare l’oggetto.
Il trucco parve funzionare. Frye si piegò di lato per evitare il proiettile.
Con un gridolino di trionfo, Hilary scagliò davvero la statuetta.
L’uomo fu colto troppo di sorpresa per riuscire a piegarsi nuovamente e la statuetta lo colpì in testa. Era stato un lancio fortunato, anche se meno violento di quanto lei avesse sperato, ma l’uomo vacillò, senza tuttavia cadere. Non era ferito gravemente. Non sanguinava neppure. Ma era stato colpito e il dolore lo trasformò. Non era più di quell’umore perversamente gioioso. Il ghigno scomparve. La bocca si era ridotta a una linea sottile, con le labbra chiuse. Il viso era paonazzo. Una rabbia furiosa lo aveva caricato come un congegno a molla. Per la tensione i muscoli del collo taurino si gonfiarono, possenti e minacciosi. Si rannicchiò leggermente, pronto ad attaccare.