Ciò nonostante, il modulo Bussard, l’elsa e il pomo della spada, fu sganciato. Manovrare in modo da allontanarlo dal vascello fu un’impresa dura e pericolosa. In mancanza di attrito e di peso, manteneva ogni grammo della sua imponente massa inerziale. Era altrettanto difficile fermarlo quanto metterlo in movimento.
Finalmente fu spinto verso poppa su un cavo. Fedoroff in persona controllò il risultato. — Fatto — brontolò. — Lo spero. — I suoi uomini agganciarono le corde di salvataggio a quello stesso cavo. Anche Fedoroff fece lo stesso, si mise in comunicazione con Telander che si trovava nel ponte di comando e staccò il modulo. Il cavo fu tirato di nuovo a bordo, trascinando con sé gli ingegneri.
Dovevano affrettarsi. Sebbene il modulo seguisse lo scafo principale su un’orbita più o meno identica, le influenze differenziali avevano un loro peso. Ben presto avrebbero causato uno spostamento indesiderabile negli allineamenti relativi. Tutti dovevano perciò essere a bordo dell’astronave prima che si verificasse la fase successiva di questo processo. Le forze che esso avrebbe prodotto non avrebbero avuto effetti piacevoli su organismi viventi.
La Leonora Christine allargò le sue membrane, che scintillarono alla luce del sole, argentee contro il buio stellato. Da molto lontano avrebbe potuto sembrare un ragno, uno di quei piccoli avventurosi aracnidi che si innalzano in volo su alianti fatti di seta rugiadosa. Dopo tutto, nell’universo l’astronave non rappresentava nulla di grande o d’importante.
Eppure l’impresa che essa si accingeva a compiere era, giudicando secondo il metro degli uomini, tale da incutere timore. L’apparato propulsore interno irrorò di energia i generatori che, dalla loro ragnatela, diedero vita a un campo di forze magnetoidrodinamiche: invisibili, ma la cui influenza si sentiva a migliaia di chilometri di distanza; un’azione reciproca dinamica, non una configurazione statica, ma mantenuta e aggiustata con una precisione che rasentava l’assoluto; enormemente forte, ma anche più enormemente complessa.
Tali forze si impadronirono dell’unità Bussard che proseguiva il suo moto inerziale, la trasportarono in una posizione micrometricamente esatta rispetto allo scafo principale, la bloccarono in tale posizione. I monitor verificarono che tutto fosse in ordine. Il capitano Telander si mise in contatto, per un controllo finale, con la Pattuglia sulla Luna, ricevette il suo benestare e lanciò un comando. Da quel momento, i robot presero l’iniziativa.
Una lenta accelerazione della spinta a ioni aveva generato una modesta velocità verso l’esterno, misurabile in decine di chilometri al secondo. Era sufficiente per mettere in moto il motore a energia stellare. La potenza disponibile aumentava per ordine di grandezza. Con accelerazione di gravità uno, la Leonora Christine cominciò a muoversi!
CAPITOLO QUARTO
In una delle stanze destinate a fungere da giardini c’era un ampio schermo sul quale si poteva vedere l’Esterno. L’oscurità punteggiata di diamanti era incredibilmente incorniciata da un groviglio di felci, orchidee, fucsie, buganvillee che si inarcavano tutt’intorno. Una fontana diffondeva un suono tintinnante, scintillando alla luce artificiale. In questa stanza l’aria era più tiepida che nella maggior parte degli altri locali a bordo ed era umida, piena di profumi e di verde.
Ma dovunque si percepiva il sotterraneo pulsare dell’apparato propulsore. I sistemi Bussard non erano stati perfezionati a un punto tale da raggiungere la silenziosità dei razzi a propulsione elettrica. Ormai l’astronave faceva sempre udire i suoi brividi e i suoi sussurri. La vibrazione era minima, quasi al limite della consapevolezza, ma si diffondeva attraverso metallo, ossa, e forse sogni.
Emma Glassgold e Chi-Yuen Ai-Ling erano sedute su una panca in mezzo ai fiori. Per un po’ avevano passeggiato nei vari locali, ma da quando erano entrate nel giardino, non avevano più aperto bocca.
Di colpo Glassgold trasalì e allontanò lo sguardo dal grande schermo trasparente. — È stato un errore venire qui — disse. — Andiamo via.
— Perché mai? Trovo questo posto affascinante — replicò la planetologa sorpresa. — Una fuga dalle pareti nude che avremmo impiegato anni altrimenti a rendere così attraenti.
— Ma non c’è fuga da quello. — Glassgold indicò lo schermo. In quel momento per caso stava esplorando il cielo in direzione della poppa e così mostrava un’immagine del Sole, ridotto all’apparenza di una stella tra le più brillanti.
Chi-Yuen osservò attentamente la sua compagna. La biologa molecolare era piccola di statura come lei e aveva capelli ugualmente neri, ma i suoi occhi erano rotondi e azzurri, il volto paffuto e roseo, il corpo un po’ tarchiato. Si vestiva con semplicità, che fosse in servizio o meno; e, senza disprezzare le attività sociali, era stata fino a quel momento più un’osservatrice che una collaboratrice attiva.
— In… quanto tempo?… un paio di settimane — continuava intanto Emma, — abbiamo raggiunto i confini del Sistema Solare. Ogni giorno — no, ogni ventiquattr’ore: ’giorno’ e ’notte’ non hanno più alcun significato — ogni ventiquattr’ore aumentiamo la velocità di 845 chilometri al secondo.
— Piccola come sono, sono ben contenta di aver riguadagnato tutto il mio peso terrestre — constatò Chi-Yuen con deliberata frivolezza.
— Non fraintendermi — replicò in fretta Glassgold. — Non mi metterò a gridare: ’Torniamo indietro! Torniamo indietro!’. — Cercò di prendersi in giro da sé. — Sarebbe troppo desolante per gli psicologi che mi hanno esaminata. — Ma il tono scherzoso svanì subito. — È soltanto che… mi rendo conto che ho bisogno di tempo… per abituarmi, un po’ alla volta, a questo.
Chi-Yuen annuì. La giovane donna orientale, nel suo più nuovo e più colorato cheong-sam — tra i suoi hobbies coltivava anche quello di fabbricarsi gli abiti — avrebbe potuto quasi appartenere a una specie diversa da quella di Glassgold. Ma vibrò un leggero colpo sulla mano dell’altra donna e disse: — Non sei la sola, Emma. Era già previsto. La gente comincia a rendersi conto non più soltanto con il cervello, ma con tutto il suo essere, di cosa significa veramente aver iniziato un viaggio del genere.
— Ma tu non mi sembri preoccupata.
— No. Non più, da quando la Terra è scomparsa nella luminosità solare. E, prima, non in modo insopportabile. Fa male dover dire addio. Ma io ho già dovuto sperimentare una cosa simile. Si impara a guardare avanti.
— Io mi vergogno — disse Glassgold. — Poiché ho avuto tante cose più di te. O proprio questo mi ha resa più debole di spirito?
— È davvero così? — Chi-Yuen le chiese quasi in sordina.
— Perché… sì. Non è così? O non ti ricordi? I miei genitori sono stati sempre di condizione agiata. Mio padre è ingegnere in una fabbrica di desalinizzazione, mia madre è agronoma. Il Negev è splendido quando crescono le messi e c’è un’atmosfera calma, amichevole, e non febbrile come a Tei Aviv o a Haifa. Inoltre studiare all’università mi piaceva molto e ho avuto la possibilità di viaggiare con buoni compagni. Il mio lavoro mi ha soddisfatta. Sì, sono stata fortunata.
— Allora, perché ti sei messa in lista per andare su Beta Tre?
— Per interesse scientifico… una nuova e totale evoluzione planetaria…
— No, Emma. — Le trecce simili ad ali di corvo si sollevarono allorché Chi-Yuen scosse la testa. — Le ultime astronavi hanno riportato dati sufficienti a mandare avanti sulla Terra le ricerche per almeno un centinaio d’anni. Da cosa stai fuggendo?