Per questa ragione un uomo ordinato, dal corpo massiccio, la barba nera, l’ufficiale di navigazione Augusto Boudreau, apparteneva alla ristretta schiera di coloro che, in viaggio, avevano un incarico a tempo pieno: doveva infatti occuparsi dei dati relativi alla navigazione. Il suo lavoro non lo costringeva però a muoversi in un circolo logico vizioso: trovare la posizione e la velocità così da poter correggere i fenomeni ottici così da poter verificare posizione e velocità. Le lontane galassie erano i suoi fari più importanti; l’analisi statistica delle osservazioni fatte sulle più vicine stelle individuali gli forniva ulteriori dati, ed egli si serviva del calcolo delle approssimazioni successive.
Ciò lo rendeva un prezioso collaboratore del capitano Telander, che calcolava grazie al computer e ordinava i necessari mutamenti di direzione, e dell’ingegnere capo Fedoroff, che faceva eseguire tali ordini. Il compito veniva portato a termine con disinvoltura. Nessuno avvertiva simili correzioni di rotta, tranne che per un occasionale e temporaneo, ma brevissimo, aumento dell’impercettibile fremito dell’astronave, un cambiamento altrettanto trascurabile e transitorio nel vettore-accelerazione, che dava l’impressione che i ponti si fossero inclinati di alcuni gradi.
Inoltre, Boudreau e Fedoroff cercavano di mantenersi in contatto con la Terra. La Leonora Christine era ancora rintracciabile da parte degli strumenti installati nel Sistema Solare. Nonostante le difficoltà create dai campi di forza dell’astronave, il raggio maser lunare poteva ancora raggiungere la Leonora Christine e trasmetterle domande, intrattenimenti, notizie e saluti personali. L’astronave poteva ancora rispondere con il proprio trasmettitore. In effetti, tali dialoghi a botta e risposta avrebbero dovuto diventare regolari, secondo le previsioni degli scienziati, non appena la Leonora Christine si fosse sistemata a dovere su Beta Virginis. L’astronave priva di equipaggio umano che l’aveva preceduta non aveva avuto problemi per quanto riguardava l’invio di informazioni. E lo stava ancora facendo in quello stesso momento, anche se la nuova astronave non era in grado di ricevere le sue trasmissioni e l’equipaggio aspettava di raggiungere la meta fissata per poterne leggere i nastri registrati.
Il problema attuale era questo: i soli e i pianeti sono oggetti grandi, dal movimento costante. Si muovono infatti nello spazio a velocità ragionevoli, raramente superiori ai cinquanta chilometri al secondo. E non procedono a zigzag, anche se impercettibilmente. È facile prevedere dove si troveranno tra centinaia d’anni da ora e inviare loro di conseguenza un raggio apportatore di un messaggio. Ma un’astronave è qualcosa di ben diverso. Gli uomini non durano a lungo; devono affrettarsi. Anche l’aberrazione ottica e l’effetto Doppler agiscono sulle trasmissioni radio. Alla fine le comunicazioni dalla Luna potevano stabilirsi su frequenze che nulla, a bordo del vascello, avrebbe potuto captare. E poi, ben prima di così, per qualche imprevedibile fattore, che può sempre verificarsi quando il periodo di tempo che intercorre tra l’emissione del raggio maser e la sua ricezione da parte dell’astronave copre alcuni mesi, il raggio non aveva più la certezza di riuscire a raggiungere l’obiettivo previsto.
Fedoroff, che era anche l’ufficiale addetto alle comunicazioni, trafficava con rivelatori e amplificatori. Rafforzava i segnali che inviava verso il Sole, sperando che dessero informazioni sufficienti per stabilire la loro futura posizione. Sebbene talvolta passassero giorni e giorni senza che il silenzio venisse rotto, egli perseverava. Veniva ogni volta ricompensato da un successo. Ma la qualità della ricezione diventava sempre peggiore, il periodo di durata più corto, l’intervallo tra una e la successiva sempre più lungo, man mano che la Leonora Christine si addentrava nel Profondo Oceano.
Ingrid Lindgren premette il pulsante del campanello. Le cabine erano sufficientemente a prova di suono cosicché bussare si sarebbe rivelato insufficiente. Non ci fu risposta. La donna insistette, ma anche questo tentativo andò a vuoto. Allora esitò, con un’espressione accigliata, bilanciandosi ora su un piede ora sull’altro. Alla fine posò la mano sulla maniglia. La porta non era chiusa a chiave. L’aprì appena e, senza guardar dentro, chiamò a bassa voce: — Boris, va tutto bene?
Udì alcuni rumori, un cigolio, un fruscio, un lento e pesante muover di passi. Poi Boris spalancò la porta. — Oh — esclamò. — Salve.
Ingrid lo guardò. Era un uomo robusto, di statura media, con un viso largo e gli zigomi alti, capelli castani striati di grigio sebbene la sua età biologica si aggirasse sui quarantadue anni. Non si era rasato da alcuni giorni e indossava soltanto una vestaglia, evidentemente infilata un attimo prima. — Posso entrare? — chiese la donna.
— Se vuoi. — Fedoroff le fece cenno di passare avanti, poi chiuse la porta. La sua metà della stanza era divisa dalla parete mobile dall’altra metà occupata momentaneamente da Pereira, capo dei Biosistemi. Un letto sfatto occupava gran parte dello spazio. Sul cassettone c’era una bottiglia di vodka.
— Scusa il disordine — disse Fedoroff in tono indifferente. Poi, dirigendosi pesantemente verso il centro della stanza, chiese alla donna: — Vuoi bere un goccetto? Non ho bicchieri, ma non hai nulla da temere. Nessuno ha malattie contagiose. — Ridacchiò o, meglio, rantolò. — Da dove verrebbero fuori i germi, qui?
Lindgren si sedette sulla sponda del letto. — No, grazie — rispose. — Sono in servizio.
— E anch’io dovrei esserlo. Sì. — Fedoroff si fermò, barcollando, accanto a lei. — Ho informato il comandante che mi sentivo indisposto e preferivo prendermi un po’ di riposo.
— Ti sei fatto visitare dal dottor Latvala?
— E perché? Fisicamente sto bene. — Fedoroff fece una pausa. — Sei venuta per accertare il mio stato di salute.
— Fa parte dei mio lavoro. Rispetterò la tua intimità, ma sei un uomo-chiave per noi.
Fedoroff sorrise. Era un sorriso forzato, come il rumore che aveva fatto prima. — Non ti preoccupare — disse. — Non sono neppure sull’orlo di una crisi psicologica. — Allungò il braccio fino a raggiungere la bottiglia, poi lo tirò indietro. — Non sto neppure cercando di mettermi in stato d’incoscienza. Non è nulla tranne… come lo chiamano gli americani?… una piccola sbornia.
— Le sbornie sono migliori in compagnia — esclamò Lindgren. Dopo un po’ aggiunse: — Credo che ora accetterò quel goccetto.
Fedoroff le porse la bottiglia e si sedette a sua volta sulla sponda del letto. Ingrid alzò la bottiglia verso di lui. — Skål. - Una piccola sorsata di liquore le scese nella gola. Gli restituì la bottiglia ed egli brindò a sua volta esclamando — Zdoroviye. - Rimasero seduti in silenzio, Fedoroff con lo sguardo puntato verso la parete, finché l’uomo sembrò riscuotersi e disse:
— Molto bene. Visto che lo devi sapere. Non lo direi a nessun altro, e men che meno ad una donna. Ma sono riuscito a capire qualcosa di te. Ingrid… Sei la figlia di Gunnar, è vero?
— Sì, Boris Ilyitch.
L’uomo le lanciò un’occhiata seguita da un sorriso molto più spontaneo. Ingrid se ne stava seduta rilassata, con le curve del corpo che venivano messe in rilievo dall’abito, e tutt’intorno a lei si poteva percepire un certo calore umano e un odore di donna. — Io credo… — parlava con la lingua impastata — … io spero che tu capisca e non vada in giro a raccontare quanto sto per dirti.