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— Già — borbottò Reymont. — Ho letto anch’io un libro di storia. Disarmo generale; una polizia a livello mondiale per mantenere tale disarmo; sed quis custodiet ipsos Custodes? Di chi ci si poteva fidare a tal punto da assegnargli il monopolio delle armi sterminatrici in tutto il pianeta e gli illimitati poteri di controllo e legislativi? Certo ci voleva un paese abbastanza grande e moderno da fare del mantenimento della pace un’importante industria; ma non tanto forte da conquistare chiunque altro e da imporre la sua volontà agli altri senza l’appoggio di una maggioranza di nazioni; inoltre, un paese che godesse di una ragionevole stima presso qualunque altra nazione. In parole povere, la Svezia.

— Allora, lei capisce — esclamò la donna con sollievo, guardandolo.

— Certo. E capisco anche le conseguenze. Il potere si nutre di se stesso, non per cospirazione, ma per necessità logica. Il denaro che il mondo paga per sopperire ai costi dell’Autorità di Controllo passa di qui; perciò voi diventate il paese più ricco della Terra, con tutto ciò che ne deriva. E, non è neanche il caso di dirlo, siete diventali il centro della diplomazia. Tutte le volte che un reattore, un’astronave, un laboratorio ha un potenziale di pericolosità e deve perciò ricadere sotto l’Autorità di Controllo, ciò significa che qualche svedese ha voce in capitolo in tutto quanto conta. Questo porta alla vostra imitazione da parte di tutti, anche di coloro ai quali non andate a genio. Ingrid, amica mia, il suo popolo non potrà sottrarsi al destino di tramutarsi in nuovi Romani.

La sua felicità di prima scomparve. — Ma a lei noi non andiamo a genio, Carl?

— Né più né meno di chiunque altro, direi. Finora siete stati padroni pieni d’umanità. Fin troppo umani, oserei dire. Per quanto concerne il mio caso particolare, dovrei esservi grato perché mi permettete di essere essenzialmente un apolide, cosa che mi sembra di preferire a ogni altra. No, non vi siete comportati male. — Indicò con un gesto della mano, a destra e a sinistra, le torri che irradiavano una splendente luminosità verso il basso. — Comunque, non durerà.

— Che cosa intende dire?

— Non lo so con precisione. Ma sono certo che nulla durerà mai per sempre. Non importa con quanta accuratezza e precisione venga edificato un sistema, dopo qualche tempo si deteriorerà e perirà.

Reymont tacque un attimo, per cercare le parole più adatte. — Nel vostro caso — disse poi, — credo che la fine possa venire proprio da questa stabilità di cui voi tanto vi gloriate. È cambiato nulla di importante, almeno sulla Terra, dall’ultimo ventesimo secolo? È questo uno stato di cose desiderabile?

«Suppongo — aggiunse, — che questa sia una ragione per impiantare alcune colonie nella galassia, se mai vi riusciremo. Per impedire un’altra Ragnarok.

La donna serrò i pugni. Volse di nuovo la faccia verso l’alto. La notte era ormai calata del tutto sulla città, ma soltanto poche stelle erano visibili attraverso il velo di luce che copriva Stoccolma. Da qualche parte — in Lapponia, per esempio, dove i suoi genitori avevano un cottage estivo — sarebbero state numerose e la loro luce sarebbe stata implacabilmente brillante.

— Mi sto comportando proprio male come accompagnatore — si scusò Reymont. — Piantiamola con queste discussioni da scolaretti e occupiamoci di argomenti più interessanti. Un aperitivo, per esempio.

La risata della donna risuonò incerta.

Reymont tentò di mantenere la conversazione su un piano di assoluta banalità mentre si infilava nello Strömmen, attraccava a riva l’imbarcazione e si avvicinava con la donna a piedi attraverso il ponte che portava alla città vecchia. Superato il palazzo reale si trovarono in una zona illuminata in modo più blando, e camminarono per stradine strette fiancheggiate da edifici dalle facciate color dell’oro che erano rimaste sempre eguali da alcune centinaia d’anni. La stagione turistica era ormai finita; degli innumerevoli forestieri che ospitava la città, pochi avevano ragioni per visitare quel lembo di terra sperduto; fatta eccezione per qualche occasionale pedone o elettrociclista, Reymont e Lindgren erano praticamente soli.

— Mi mancherà tutto questo — disse la donna.

— È uno spettacolo pittoresco — concesse Reymont.

— È più di questo, Carl. Non è soltanto un museo all’aperto, perché qui vivono reali esseri umani. E coloro che hanno preceduto gli attuali abitanti è come se vivessero ancora. Oh, la Torre di Birger Jarl, la chiesa di Riddarholm, gli scudi della Casa dei Nobili, la Pace d’Oro dove Bellman bevve e cantò… Ci sentiremo soli nello spazio, Carl, così lontani dai nostri morti.

— Eppure lei sta per partire.

— Sì. Ma non è facile. Mia madre che mi ha partorito, mio padre che mi prendeva per mano e mi portava fuori all’aperto per insegnarmi a riconoscere le costellazioni. Quella prima notte, si sarà reso conto di ciò che stava facendo? — Trasse un profondo respiro. — In parte è per questo che mi sono messa in contatto con lei. Dovevo fuggire da ciò che sto facendo loro. Anche se per un solo giorno.

— Lei ha bisogno di bere qualcosa — disse Reymont, — ed eccoci arrivati.

L’entrata del ristorante era sulla grande piazza del Mercato. Passando in mezzo alle altre facciate degli edifici che li circondavano, era facile immaginare l’allegro risuonare sulle pietre della pavimentazione degli zoccoli dei destrieri montati dagli antichi cavalieri. E non ci si sarebbe ricordati come i rigagnoli delle strade fossero pieni di sangue e quanto fossero alte le cataste di teste troncate dal corpo, una certa settimana d’inverno, perché ciò risaliva a un passato ormai remoto e gli uomini raramente indugiano a considerare le disgrazie toccate ad altri uomini. Reymont accompagnò Lindgren fino a un tavolo in una saletta illuminata dalla luce delle candele, che era riservata a loro soltanto, e ordinò akvavit e una bibita a base di birra.

Lindgren gli rimase alla pari, bicchiere dopo bicchiere, sebbene avesse un peso inferiore e minore allenamento. Il pasto che seguì fu tirato notevolmente in lungo anche per le abitudini scandinave, e fu innaffiato da una notevole quantità di vino e, dopo, di cognac. Reymont lasciò che fosse per lo più Lindgren a parlare.

… di una casa vicino a Drottningholm, il cui parco e i cui giardini erano per lei come suoi; la luce del sole attraverso le finestre, che scintillava su pavimenti di legno lucido e su oggetti d’argento che erano passati per le mani di dieci generazioni, una barca a vela sul lago, inclinata per l’azione del vento, il padre alla barra del timone con una pipa tra i denti, i capelli di lei che svolazzavano sciolti; assurde notti durante il periodo invernale e, a metà, quella caverna calda chiamata Natale; le brevi e luminose notti estive, i falò alla vigilia di San Giovanni, per rievocare la volta in cui erano stati accesi per dare il benvenuto a casa a Baldr tornato dal mondo sotterraneo; una passeggiata sotto la pioggia con un primo innamorato, l’aria gelida, impregnata d’umidità e del profumo di lillà; viaggi per tutta la Terra, le piramidi, il Partenone, Parigi al tramonto dalla cima di Montparnasse, il Taj Mahal, Angkor Wat, il Cremlino, il ponte di Golden Gate, sì, e il Fujiama, il Gran Canyon, le cascate Vittoria, il Reef della grande barriera…

… d’amore e allegria a casa, ma anche disciplina, ordine, serietà alla presenza di estranei; musica sempre, Mozart il più amato; una buona scuola, dove insegnanti e alunni l’avevano resa cosciente, quasi in un’esplosione di consapevolezza, dell’esistenza di un intero nuovo universo; l’Accademia, il lavoro più duro che mai avesse sospettato di saper fare, e quale piacere provò nell’accorgersi di esserne capace; crociere nello spazio, fino ai pianeti, oh lei era stata sulle nevi di Titano con Saturno sopra la testa, sconvolta da tanta bellezza; e sempre, sempre, i suoi parenti da cui tornare…