… in un buon mondo, la sua gente, le loro azioni, i loro piaceri tutti sani; sì, restavano problemi irrisolti, estreme crudeltà, ma con il tempo se ne poteva trovare la soluzione grazie alla ragione e alla buona volontà; sarebbe stata uria gioia credere in una qualche religione, perché ciò avrebbe reso il mondo perfetto dando ad esso uno scopo ultimo, ma in mancanza di prove convincenti ella poteva fare del suo meglio per aiutare a soddisfare quella richiesta, per aiutare l’umanità a muoversi verso qualcosa di più alto e nobile…
… ma no, non era una donna pedante e puritana, Reymont non doveva credere una cosa simile; in realtà, ella spesso si chiedeva se non fosse fin troppo edonistica, un po’ più disinibita di quanto fosse giusto; comunque ricavava piacere dalla vita senza far del male a nessun altro, almeno per quanto le sembrava; viveva con grandi speranze nel futuro.
Reymont le versò l’ultimo caffè. Il cameriere aveva finalmente portato il conto, sebbene non sembrasse avere molta fretta di riscuotere i soldi come la maggior parte dei suoi colleghi a Stoccolma. — Io penso che, nonostante gli svantaggi — disse Reymont, — riuscirai a godere di questo viaggio.
La voce della donna era diventata un po’ impastata. Ma i suoi occhi, mentre lo guardavano, rimanevano vivi ed equilibrati. — Intendo che sia così — esclamò. — Questa è infatti la ragione principale per cui ti ho cercato. Ricorda, durante l’addestramento ti avevo invitato a venire a trascorrere una parte della licenza in questa regione. — Ormai si davano del tu.
Reymont aspirò il suo sigaro. Nello spazio il fumo sarebbe stato proibito, per non sovraccaricare i sistemi per mantenere pura l’atmosfera nell’astronave, ma quella sera poteva ancora creare una nuvoletta azzurra davanti a sé.
Lindgren si chinò in avanti, appoggiando una mano su quella di lui che se ne stava inoperosa sul piano del tavolo. — Ci stavo pensando — gli disse. — Venticinque uomini e venticinque donne, per cinque anni in un guscio di metallo. Altri cinque anni se torniamo indietro immediatamente. Anche con i trattamenti antisenescenza, un decennio è una bella fetta di esistenza.
Reymont annuì.
— E naturalmente dovremo fermarci per esplorare — continuò la donna. — Se quel terzo pianeta è abitabile, ci stabiliremo lì per colonizzarlo — per sempre — e cominceremo a procreare figli. Qualunque cosa faremo, dovremo cominciare ad accoppiarci. Siamo in numero pari proprio per questo.
Reymont disse, parlando piano per paura di sembrare troppo brusco: — Pensi che tu e io potremmo costituire una coppia?
— Sì. — La sua voce si rafforzò. — Può sembrarti immodesto da parte mia, che io sia o no un’astronauta. Ma sarò più occupata della maggior parte dei nostri compagni, specialmente nelle prime settimane di viaggio. Non avrò tempo per le sfumature e i rituali. Per me potrebbe verificarsi una situazione che non mi va di sopportare. A meno che non ci pensi prima e non mi prepari in anticipo. Cosa che sto appunto facendo.
Reymont portò la mano di lei alle sue labbra. — Sono profondamente onorato, Ingrid. Ma potremmo essere troppo diversi l’uno dall’altra.
— No, io sospetto che sia proprio questo ad attirarmi. — Il palmo della sua mano si incurvò attorno alla bocca dell’uomo e gli scivolò lungo la guancia. — Voglio conoscerti. Sei l’individuo più virile che abbia mai incontrato.
Reymont appoggiò il denaro sul conto. Per la prima volta Lindgren lo vide agire senza la sua abituale sicurezza. Egli poi spense il sigaro, tenendo lo sguardo fisso su quanto stava facendo. — Io abito in un albergo sulla Tyska Brinken — disse. — Un po’ squallido.
— Non importa — replicò Ingrid. — Non credo che ci farò caso.
CAPITOLO SECONDO
Vista da una delle navette che portavano l’equipaggio al punto d’imbarco, la Leonora Christine assomigliava a una spada puntata verso le stelle.
Il suo scafo era un conoide che si assottigliava verso la prua. La sua superficie levigata e lucente sembrava ornata più che rotta dagli accessori esterni: chiuse e portelli; apparecchi di rilevamento per gli strumenti interni; installazioni per ospitare le due imbarcazioni spaziali che avrebbero effettuato le discese sui pianeti alle quali la nave madre non era destinata; e la membrana del motore Bussard, in quel momento ancora piegata e appiattita. La base del conoide era abbastanza larga, poiché tra le altre cose conteneva la massa di reazione; ma la lunghezza era troppo marcata perché questo particolare potesse essere subito notato.
In cima alla lama della spada si apriva a ventaglio una struttura che avrebbe potuto essere scambiata per la coccia di un fioretto. Il suo margine esterno reggeva otto cilindri scheletrici puntati in direzione della poppa. Questi erano i tubi di spinta, che imprimevano un’accelerazione a ritroso alla massa di reazione quando l’astronave si muoveva a velocità puramente interplanetarie. Il "canestro" racchiudeva gli apparecchi di controllo di tali tubi e l’apparato energetico.
Al di là di questo complesso, di colore più scuro, si innalzava l’elsa della spada, che terminava in cima in un complicato pomo. Quest’ultimo era il motore Bussard; tutto il resto faceva da schermo alle sue radiazioni allorché sarebbe stato attivato.
Così era fatta la Leonora Christine, l’ultima in ordine di tempo e la settima del suo genere. La semplicità del suo aspetto esteriore era dovuta alla natura della sua missione ed era altrettanto ingannevole di quella della pelle umana: all’interno, infatti, era una struttura quasi altrettanto complessa e macchinosa. Nel lasso di tempo trascorso dal momento in cui era stata concepita per la prima volta l’idea basilare di un simile apparato, verso la metà del secolo ventesimo, erano inclusi forse un milione di anni-luce di pensiero e di lavoro diretti al raggiungimento di quella realizzazione; e alcuni di quegli uomini avevano posseduto menti e intelligenze superiori a quelle di chiunque altro mai esistito. Sebbene si avesse già una certa esperienza pratica e si possedessero gli strumenti essenziali allorché era cominciata la sua costruzione, e sebbene la civiltà tecnologica avesse raggiunto uno sviluppo fantastico (anche perché finalmente, almeno per un po’, non era stata gravata dal peso della guerra o di una minaccia di conflitto bellico), tuttavia il costo assurgeva a vette praticamente impensabili e aveva provocato diffuse lamentele. Tutto questo solo per mandare cinquanta persone su una stella che era praticamente alla porta accanto?
Esatto. Questa è la misura dell’universo.
E l’universo si profilava nettamente dietro all’astronave, attorno ad essa, mentre la Leonora Christine girava in un’orbita terrestre. Volgendo lo sguardo lontano dal sole e dal pianeta, si vedeva un’oscurità cristallina più profonda di quanto la mente umana osasse comprendere. Non sembrava completamente nera; c’erano riflessi di luce all’interno dei bulbi oculari di chi guardava, se non altrove; ma era la notte finale, che il nostro benevolo cielo ci nasconde. Le stelle popolavano quella notte, senza lampeggiare, e il loro fulgore aveva una freddezza invernale. Quelle abbastanza luminose da essere viste a occhio nudo dal suolo rivelavano chiaramente i loro colori nello spazio: il blu acciaio di Vega, l’oro di Capella, l’ambra di Betelgeuse. E, a un occhio non esperto, i componenti minori della galassia, diventati visibili nel frattempo, erano così numerosi da confondere e rendere irriconoscibili le costellazioni familiari. La notte era una giungla di soli.
La Via Lattea cingeva il firmamento con una cintura di ghiaccio e argento; le Nubi di Magellano non erano vaghi luccichii ma bagliori incandescenti; la galassia di Andromeda risplendeva nettamente attraverso più di un milione di anni-luce e si aveva l’impressione che la propria anima annegasse in quelle profondità, cosicché in tutta fretta si riportava il pensiero alla confortevole cabina in cui ci si trovava.