I miglioramenti strumentali di Nilsson si erano rivelati eccellenti produttori di lavoro. Ma ormai il campo si stava esaurendo, a meno che gli astronomi riuscissero a immaginare nuove soluzioni. La maggior parte del lavoro era finita; il carico era stato spostato, il ponte Numero Due era stato trasformato in osservatorio elettronico, il suo pazzo disordine riequilibrato. Gli esperti potevano riparare e migliorare, quanto perdersi nei loro prodigiosi studi dell’universo esterno. Ma per il grosso della squadra non restava altro da fare.
Si poteva solo aspettare.
Ad ogni crisi, i passeggeri si erano galvanizzati, però ogni empito di speranza era più smorzato del precedente e ogni tuffo nell’angoscia più profondo. Per esempio, ci si sarebbe aspettati al momento una più vivace reazione al cambiamento delle regole relative alle nascite. Invece soltanto due donne avevano scelto di diventare madri e il trattamento contraccettivo non avrebbe perso efficacia prima di alcuni mesi. Le altre erano interessate, senza dubbio, in un certo modo…
L’astronave venne scossa da un tremito. La gravità si impadronì di colpo di Reymont, che per un pelo non cadde pesantemente sul ponte. Un rumore metallico risuonò nello scafo, come un rintocco basso e profondo di gong. Passò subito. La caduta libera ricominciò. La Leonora Christine aveva appena attraversato un’altra galassia.
Quei passaggi diventavano ogni giorno sempre più frequenti. L’astronave non avrebbe mai trovato la configurazione giusta per fermarsi? Doveva iniziare la decelerazione, anche se soltanto per fare qualcosa di diverso?
Era possibile che Nilsson, Chidambaram, Foxe-Jameson avessero sbagliato i loro calcoli? Cominciavano forse a rendersene conto? Per questa ragione nelle ultime settimane avevano lavorato fino alle ore piccole nell’osservatorio e avevano un’aria così preoccupata e taciturna quando uscivano da quella stanza per andare a mangiare e a dormire?
Be’, senza dubbio Lindgren avrebbe avuto tale informazione da Nilsson non appena fosse stata confermata, qualunque essa fosse.
Reymont fluttuò nella tromba delle scale fino al piano degli alloggi dell’equipaggio. Dopo essersi fermato un attimo nella propria cabina, trovò la porta che stava cercando e premette il campanello. Non ottenendo risposta, verificò la maniglia. La porta era chiusa a chiave. Ma quella accanto, che dava nella cabina occupata da Sadler, non lo era. Reymont entrò da quella parte. La paratia mediana era abbassata, dividendo la metà cabina di Jane da quella del suo uomo. Reymont la sollevò.
Johann Freiwald fluttuava alla fine del suo letto. Il suo corpo robusto era rannicchiato in posizione fetale, ma gli occhi mantenevano uno sguardo cosciente.
Reymont si afferrò a una maniglia, incontrò quello sguardo e disse, in tono noncurante: — Mi chiedevo perché non ti si vedesse più in giro. Poi ho sentito che non stavi bene. C’è nulla che possa fare per te?
Freiwald emise una specie di sordo grugnito.
— Tu puoi fare molto per me — continuò Reymont. — Io ho un bisogno disperato di gente come te. Sei stato il miglior aiutante — poliziotto, consigliere, capo di una squadra di lavoro, mente piena di idee — che io abbia avuto in tutto questo periodo. Non potrei fare a meno di te.
Freiwald parlò con un certo sforzo. — Dovrai fare a meno di me.
— Perché? Che cosa succede?
— Non posso più continuare così. È semplice. Non ce la faccio.
— Perché no? — insistette Reymont. — I lavori che abbiamo non sono pesanti, dal punto di vista fisico. Inoltre, tu sei forte. L’imponderabilità non ti ha mai disturbato. Sei un uomo da età delle macchine, un individuo pratico, una mente robusta e solida. Non sei certo uno di quelli che si sono autonominati individui fragili e che devono essere coccolati ogni minuto perché la loro tenera mente non può sopportare un viaggio lungo. — Sbuffò. — O sei anche tu come loro?
Freiwald si mosse. Le guance non rasate si oscurarono un po’. — Io sono un uomo — replicò. — Non un robot. Alla fine ho cominciato a pensare.
— Amico mio, immagini che saremmo sopravvissuti fino ad ora se gli ufficiali, in ogni caso, non avessero passato ogni ora di veglia a pensare?
— Non intendo parlare delle vostre dannate misurazioni, dei calcoli, delle correzioni di rotta, delle modifiche all’equipaggiamento. Tutto questo deriva soltanto dall’istinto di sopravvivenza. Un’aragosta che cerchi di scappare da un pentolone dimostra altrettanta dignità. Ma io mi chiedo, perché? Che cosa stiamo facendo realmente? Che cosa significa tutto questo?
— Et tu, Brute - mormorò Reymont.
Freiwald si girò finché riuscì a fissare dritto negli occhi il poliziotto. — Visto che sei così insensibile… Sai che anno è questo?
— No. E neanche tu. I dati sono troppo incerti. E se ti chiedi quale anno sarebbe nel sistema solare, è una domanda priva di significato.
— Sta’ zitto! Conosco tutta la teoria della simultaneità. Abbiamo percorso all’incirca cinquanta miliardi di anni-luce. Stiamo percorrendo tutta la curva dello spazio. Se in questo momento tornassimo nel Sistema Solare, non vi troveremmo nulla. Il nostro Sole è morto molto tempo fa. È cresciuto ed è diventato sempre più brillante finché la Terra ne è stata divorata; è diventato una stella variabile, che manda bagliori incostanti come una candela nel vento; si è degradato fino a diventare una nana bianca, poi un pezzo di brace, infine cenere. E le altre stelle hanno seguito la stessa strada. Nella nostra galassia può non essere rimasto altro che declinanti nane rosse, e sarebbe già molto. Altrimenti soltanto scorie. La Via Lattea è scomparsa. Tutto ciò che conoscevamo, tutto ciò che ci ha fatto, è morto. A cominciare dalla razza umana.
— Non necessariamente.
— Allora è diventato qualcosa che noi non siamo in grado di capire. Noi siamo fantasmi. — Le labbra di Freiwald tremavano. — Continuiamo la nostra caccia, senza tregua, come monomaniaci… — Di nuovo l’accelerazione di gravità si fece sentire all’interno dell’astronave. — Ecco. Hai sentito. — I suoi occhi avevano il contorno bianco, come se l’uomo fosse attanagliato dalla paura. — Siamo passati attraverso un’altra galassia. Altri centomila anni. Per noi, una frazione di secondo.
— Oh, non proprio — disse Reymont. — Il nostro tau non può essere così piccolo. Probabilmente abbiamo attraversato un braccio a spirale.
— Distruggendo quanti mondi? Sono a conoscenza dei dati. Non abbiamo la massa di una stella, ma la nostra energia… penso che potremmo perforare il cuore di un sole e non rendercene nemmeno conto.
— Forse.
— Questa è una parte del nostro destino infernale. Siamo diventati una minaccia per… per…
— Non dirlo. — Reymont gli si rivolse con franchezza. — Non pensarlo nemmeno. Perché non è vero. Noi esercitiamo una specie di azione e reazione con il pulviscolo e i gas, nient’altro. Attraversiamo molte galassie. Queste sono relativamente vicine l’una all’altra rispetto alle loro dimensioni. All’interno di un ammasso stellare, i singoli membri sono all’incirca a una distanza di dieci diametri, spesso anche meno. Ma le singole stelle in una galassia… questa è una situazione completamente diversa. I loro diametri sono una frazione microscopica di anni-luce. Nella regione di un nucleo, la parte più affollata… be’, la distanza tra due stelle è ancora simile a quella che potrebbe correre tra due uomini, ognuno dei quali si trovi all’estremità opposta di un continente. Un grande continente, come l’Asia.
Freiwald distolse lo sguardo. — Non c’è più l’Asia — disse. — Non c’è più nulla.
— Ci siamo noi — replicò Reymont. — Siamo vivi, siamo reali, possiamo sperare. Che cos’altro vuoi? Qualche grandiosa giustificazione filosofica? Dimenticala. È un lusso. I nostri discendenti la inventeranno, insieme con noiose epiche sul nostro eroismo. Noi abbiamo sudore, lacrime, sangue… — Sul suo volto lampeggiò un sorriso, — … in breve, le poco attraenti escrezioni dell’organismo umano. E che cosa c’è di male in questo? Il tuo guaio è che tu credi che una combinazione di acrofobia, di perdita sensoriale e di tensione nervosa sia una crisi metafisica. Quanto a me, non disprezzo il nostro istinto di sopravvivenza, anche se ciò può accomunarci alle aragoste. Sono felice di averlo.