Ingrid Lindgren disse: — Non posso lasciarla, Carl. È troppo degna del nostro rispetto.
— Di che cosa stai parlando? — replicò Reymont. — Noi due non possiamo abbandonare l’altro. Né io né tu possiamo farlo. Ai-Ling capisce che tu sei qualcosa di unico per me. Ma anche lei lo è, in un certo senso. E così siamo tutti, ognuno nei confronti di tutti gli altri. Non lo siamo, forse? Dopo quello che abbiamo passato insieme?
— Sì. È soltanto che… non avrei mai pensato di udire da te queste parole, Carl, amore mio.
L’uomo rise. — Che cosa ti aspettavi?
— Oh, non so. Qualcosa di duro e di inflessibile.
— Il tempo per queste cose è trascorso — disse Reymont. — Siamo arrivati là dove eravamo diretti. Adesso dobbiamo cominciare da capo.
— Anche con tutti gli altri? — chiese Ingrid, in tono un po’ canzonatorio.
— Sì, certo. Buon Dio, non ne abbiamo discusso a sufficienza, tra tutti noi? Abbiamo bisogno di prendere dal passato tutti i lati positivi e dimenticare quelli negativi. Come… be’, l’intera questione della gelosia, non mischiare i nostri caratteri genetici quanto più è possibile. Cinquanta esseri umani per dare inizio a un’intera specie intelligente! Così le tue preoccupazioni per chi possa essere ferito, o lasciato da parte, o cos’altro ancora… non hanno ragione di essere. Con tutto il lavoro che ci aspetta, le singole personalità non hanno più alcuna importanza.
La attirò a sé e rise piano. — Non che non possiamo dire all’universo che Ingrid Lindgren è l’oggetto più amabile che vi esista — esclamò, poi si sdraiò sotto un vecchio albero maestoso e tirò la donna per mano. — Vieni qua. Ti ho detto che ci saremmo presi una vacanza.
Coperto di squame simili a lastre d’acciaio, con le ali che mandavano un sibilo acuto, passò sopra le loro teste una di quelle creature chiamate draghi.
Lindgren raggiunse Reymont, ma sembrava esitante. — Non so se ce la faremo, Carl — disse.
— Perché no?
— Troppo da fare.
— Le costruzioni, le piantagioni, tutto procede bene. Gli scienziati non hanno previsto alcun tipo di minaccia, attuale o potenziale, che noi non si possa affrontare e respingere. Possiamo perciò permetterci di oziare un po’.
— Va bene, guardiamo le cose in faccia. — Si lasciò uscire di bocca le parole malvolentieri. — I re non si concedono vacanze.
— Di che cosa stai blaterando? — Reymont si appoggiò contro il tronco ruvido e profumato e scompigliò i capelli della donna, che mandavano bagliori sotto la luce del giovane sole. Caduta l’oscurità, ci sarebbero state tre lune a brillare su di lei e più stelle in cielo di quante mai l’uomo ne avesse conosciute.
— Parlo di te — disse Ingrid. — Tutti guardano te, l’uomo che li ha salvati, l’uomo che ha osato sopravvivere, ti guardano perché…
Egli le chiuse la bocca nel modo più piacevole.
— Carl! — protestò Ingrid.
— Ti importa?
— No, certamente no. Al contrario. Ma… voglio dire, il tuo lavoro…
— Il mio lavoro — disse Reymont, — è condividere il lavoro della comunità. Niente di più e niente di meno.
«Quanto al resto, in America c’era un proverbio che diceva: "Se mi chiamano, non vado; se mi eleggono, non governo."
La donna lo guardò con una specie di terrore. — Carl! Non puoi parlare sul serio!
— Certo che posso — rispose Reymont. Per un attimo tornò a farsi serio. — Non appena una crisi è passata, non appena la gente può cavarsela da sé… che cosa di meglio può fare un re per loro se non togliersi la corona?
Poi scoppiò a ridere e la sua ilarità si comunicò alla donna che rise con lui, e furono soltanto due esseri umani.