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Le cabine per i passeggeri che non fossero ufficiali si aprivano su due corridoi che fiancheggiavano una fila di stanze da bagno. Ogni compartimento era alto due metri e aveva un’area di quattro metri per quattro; aveva due porte, due armadi a muro, due cassettoni fissati alla parete e al pavimento e con alcuni ripiani al di sopra e due letti pieghevoli. Questi ultimi scorrevano su rotaie e potevano essere riuniti insieme o spinti da parte. Nel secondo caso, era possibile abbassare una specie di paratia dal soffitto e trasformare così la stanza doppia in due singole.

— È stato un viaggio da scrivere sul mio diario, signor commissario. — Chi-Yuen afferrò una maniglia e appoggiò la fronte contro il metallo gelido. L’allegria le faceva ancora vibrare la bocca.

— Con chi divide questa stanza? — chiese Reymont.

— Per il momento con Jane Sadler. — Chi-Yuen aprì gli occhi e lanciò uno sguardo scintillante sul compagno. — A meno che lei non abbia un’idea diversa.

— Cosa? Uh… io sto con Ingrid Lindgren.

— Di già? — Il buonumore l’abbandonò. — Mi scusi. Non dovrei far domande.

— No, tocca a me farle delle scuse — esclamò Reymont. — Facendola aspettare qui senza aver nulla da fare, come se lei non riuscisse a cavarsela in caduta libera.

— Non può fare eccezioni. — Chi-Yuen era di nuovo completamente seria. Tirò giù il letto, vi fluttuò sopra e cominciò a prepararlo. — Voglio stare per un po’ sola, sdraiata qui, a pensare.

— Alla Terra?

— A molte cose. Stiamo lasciando più di quello che molti di noi hanno capito, Charles Reymont. È una specie di morte… seguita dalla resurrezione, forse, ma ciò non di meno è una morte.

CAPITOLO TERZO

— … zero!

La propulsione a ioni entrò in funzione. Nessun uomo avrebbe potuto stare dietro al suo pesante schermo protettivo per osservarla in attività e rimanere vivo. Non avrebbe neppure potuto ascoltarne il rombo, né percepire anche la minima vibrazione prodotta da una simile potenza. Era una macchina troppo efficiente per permettere una cosa del genere. Invece, nella cosiddetta stanza del motore, che in realtà era un centro nervoso elettronico, gli uomini udivano soltanto un debole battito delle pompe che aspiravano la massa di reazione dai serbatoi. Era una specie di pulsazione di cui si rendevano a malapena conto, intenti com’erano a controllare le misurazioni, le scritte, le immagini luminose e i segnali in codice che servivano a monitorizzare il sistema. La mano di Boris Fedoroff non si allontanava mai troppo dal principale interruttore di disinnesco. Tra lui e il capitano Telander, che si trovava sul ponte di comando, era un flusso ininterrotto di osservazioni borbottate a mezza voce. Ma per la Leonora Christine tutto ciò non era necessario. Apparecchi di gran lunga meno sofisticati di lei erano in grado di manovrarsi da soli. Ed era in effetti quanto l’astronave stava facendo. I suoi robot interni alla struttura stessa e strettamente collegati tra loro lavoravano con maggior velocità e precisione — maggior flessibilità, anche, nei limiti della loro programmazione — di quanto la carne mortale potesse sperare di fare. Ma sovrintendere al processo era una necessità psicologica per gli uomini.

Nelle altre zone dell’astronave la sola prova concreta del fatto che il veicolo spaziale si fosse messo in moto era, per coloro che giacevano nelle loro cabine, un ritorno di peso. Non in misura totale, soltanto un decimo del normale, ma dava comunque a tutti una sensazione di «sopra» e «sotto» che riusciva bene accetta ai loro organismi. Si sganciarono le cinture che li tenevano legati al letto. Attraverso il telefono interno Reymont comunicò: — Il commissario di bordo al personale non in servizio. Potete muovervi ad libitum - al di fuori del vostro ponte, cioè. — Poi, in tono sarcastico, aggiunse: — Vi ricordiamo che a mezzogiorno, ora di Greenwich, verrà trasmessa una cerimonia ufficiale di saluto, completa di benedizione. La proietteremo sullo schermo della palestra, per coloro che abbiano interesse ad assistervi.

La massa di reazione entrò nella camera di scoppio. Generatori termonucleari trasmisero energia ai furenti archi elettronici che smembrarono gli atomi in ioni; i campi magnetici separarono particelle positive e negative; le forze si focalizzarono in raggi; gli impulsi le scagliarono a velocità sempre più alte mentre si proiettavano nelle cavità concentriche dei tubi di spinta, finché ne emersero con una velocità appena inferiore a quella della luce stessa. La loro emissione era invisibile a occhio nudo, neanche una minima parte d’energia veniva sprecata sotto forma di fiamma. Invece, tutto quello che le leggi della fisica permettevano di ricavare da un simile procedimento veniva utilizzato per spingere in avanti la Leonora Christine.

Un vascello della sua mole non poteva accelerare la sua corsa come un qualsiasi incrociatore spaziale della Pattuglia. Ci sarebbe voluta una quantità di carburante maggiore di quanta la Leonora Christine potesse trasportarne, dal momento che essa doveva sopportare il peso di una cinquantina di persone, dei viveri necessari al sostentamento per dieci o quindici anni, degli strumenti necessari a soddisfare ogni loro curiosità scientifica dopo che avessero raggiunto la meta e (nel caso che i dati trasmessi dalla sonda provvista di strumenti scientifici che l’aveva preceduta si fossero rivelati esatti per quanto concerneva l’abitabilità del terzo pianeta di Beta Virginis) di mezzi e macchinari grazie ai quali l’uomo avrebbe potuto costruirsi un nuovo mondo tutto per sé. L’astronave uscì lentamente dall’orbita terrestre, con un movimento a spirale. I suoi passeggeri ebbero buone possibilità di osservare, sui grandi schermi visivi, la loro terra natia che rimpiccioliva sempre più fino a confondersi tra le stelle.

Nel cosmo non c’era però spazio da sprecare. Ogni centimetro cubico all’interno dello scafo doveva avere una sua funzione. Però persone intelligenti e sensibili quel tanto da affrontare un’avventura nel cosmo sarebbero impazzite in un ambiente «funzionale». Al momento della partenza le paratie erano nude superfici di metallo e plastica, ma i passeggeri dotati di talento artistico avevano in mente piani precisi. In un corridoio Reymont vide Emma Glassgold, biologa molecolare, che tracciava a grandi linee un disegno sulla parete che in seguito si sarebbe rivelato essere una foresta attorno a un lago illuminato dal sole. E, questo fin dal primo momento, i ponti destinati agli alloggi e a fini ricreativi avevano il pavimento ricoperto di un materiale verde fresco come un prato primaverile. L’aria che irrompeva dai ventilatori era più che purificata dagli impianti della sezione idroponica e dai colloidi dell’equilibratore di Darrell. E non era sempre uniforme, ma registrava sbalzi di temperatura, diversi gradi di ionizzazione, odori diseguali. Al momento sapeva di trifoglio fresco — con l’aggiunta, per chi fosse passato dalla cambusa, di profumini stuzzicanti, poiché un cibo raffinato avrebbe dovuto compensare molte privazioni.

Per la stessa ragione le sale destinate agli svaghi di tutti erano un labirinto che occupava un intero ponte. La palestra, che fungeva inoltre da teatro e da sala per le riunioni, era l’ambiente più vasto, ma anche la mensa era di dimensioni tali da permettere ai commensali di allungare le gambe e rilassarsi. Accanto c’erano negozi che offrivano di che soddisfare ogni tipo di hobby, una stanza per i giochi sedentari, una piscina, minuscoli giardini e pergolati. Alcuni dei disegnatori della nave si erano opposti al progetto di sistemare su questo stesso ponte le cabine dei sogni.