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E poi, una qualche belva immane aveva lanciato il proprio ruggito. Tutto attorno a loro si erano alzate fiamme verdi: altofuoco, il piscio dei piromanti, il demone colore della giada. Matthos era stato fianco a fianco con Davos sul ponte della Betha nera quando la nave era stata come catapultata fuori dall’acqua. Davos si era ritrovato nel fiume, a lottare contro la corrente che continuava a farlo ruotare. A monte, le fiamme verdi alte cinquanta piedi avevano squarciato il cielo. Davos aveva visto la Betha nera che bruciava, e anche la Furia, e una dozzina di altre navi. La Fantasma e la Lady Marya erano svanite, affondate oppure sventrate o inghiottite dietro il velo dell’altofuoco. Non c’era stato il tempo di cercarle: la foce del fiume incombeva su di lui. E attraverso il fiume, i Lannister avevano teso una grande catena di ferro. Da una riva all’altra non si vedevano altro che navi incendiate e altofuoco. Per un momento, quello spettacolo aveva arrestato i battiti del suo cuore. Davos aveva ancora in mente quei rumori agghiaccianti: il rantolo delle fiamme, il sibilo del vapore, le urla degli uomini che morivano. Così come ricordava la pressione dell’immenso calore sul volto mentre la corrente lo spingeva dentro il ventre stesso degli inferi.

L’unica cosa che avrebbe dovuto fare in quel momento era lasciarsi andare. Pochi attimi ancora, e sarebbe stato assieme ai suoi figli, a riposare nel fresco fango verde sul fondo della baia, con i pesci che gli mordevano la faccia.

Invece si era riempito i polmoni e si era immerso, spingendo verso il fondale. La sua sola speranza era passare al di sotto della catena e della barriera di relitti in fiamme e delle placche di altofuoco che andavano alla deriva sulla superficie del fiume. Ma, per raggiungere la salvezza rappresentata dalla baia che si allargava al di là, doveva nuotare duro. Davos Seaworth era sempre stato un nuotatore possente, e quel giorno, a eccezione dell’elmo che gli era caduto quando aveva perduto la Betha nera, non portava addosso altro acciaio. Aveva perforato la penombra verdastra, vedendo altri uomini che lottavano sott’acqua, trascinati inesorabilmente verso l’abisso dal peso delle armature e delle maglie di ferro. Davos li aveva superati, scalciando con tutta la forza che gli restava nelle gambe, cercando di sfruttare al massimo la corrente, l’acqua che gli riempiva gli occhi. In profondità, e ancora in profondità, fino al margine estremo della profondità. A ogni spinta, trattenere il fiato diventava sempre più difficile. Ricordava di aver visto il fondo, molle e indefinito, mentre un fiotto di bolle gli sgorgava dalle labbra. Qualcosa gli aveva toccato una gamba… Un pesce, o qualcuno che stava annegando. Impossibile dirlo.

Aveva bisogno d’aria, ma aveva paura. Era riuscito a superare la catena? Ce l’aveva fatta a raggiungere la baia? Se nel risalire fosse finito sotto la chiglia di una delle navi, sarebbe annegato. Se invece fosse tornato in superficie in mezzo a una delle chiazze di altofuoco, al suo primo respiro gli si sarebbero inceneriti i polmoni. Si era contorto sott’acqua, cercando di guardare verso l’alto. Ma non c’era niente da vedere, soltanto tenebre verdastre. E poi si era girato troppo. Di colpo, non era più stato in grado di dire dov’era l’alto e dov’era il basso. Il panico si era impadronito di lui. Le sue mani avevano artigliato il fondale, sollevando una nube di fango che gli aveva riempito gli occhi, accecandolo. Il suo petto sembrava sul punto di esplodere a ogni istante. Appoggiando i piedi sul fondo si era spinto verso l’alto, roteando, i polmoni che imploravano aria, scalciando, scalciando, perduto nel buio del fiume, scalciando e scalciando e scalciando. Fino a quando non aveva più avuto la forza di lottare. La sua bocca si era aperta in un urlo. L’acqua era dilagata dentro, piena del sapore di salmastro. E Davos Seaworth aveva capito di stare annegando.

Il sole, alto nel cielo, era stata la visione successiva. Davos si era ritrovato a giacere sulla riva pietrosa del nudo artiglio granitica Tutto attorno a lui, c’era la baia vuota. Vicino a lui galleggiavano un albero spezzato, una vela bruciata e un cadavere rigonfio. L’albero, la vela e l’uomo morto svanirono con l’alta marea successiva, lasciando Davos da solo sulla sua roccia, in mezzo alle altre lance del re sommerso.

Nei suoi lunghi anni di contrabbandiere, le acque attorno ad Approdo del Re gli erano diventate familiari come il pavimento di casa. Era consapevole che il suo rifugio non era niente di più che un punto infinitesimo sulle mappe, in un luogo che i marinai onesti cercavano di evitare… Anche se lui, Davos, durante i suoi giorni di fuorilegge, c’era passato una volta o due, in modo da non essere avvistato. “Quando troveranno qui il mio corpo, ammesso che mai lo trovino, forse a questa roccia daranno il mio nome” pensò. “Roccia delle Cipolle, la chiameranno. Sarà la mia pietra tombale. E sarà il mio retaggio.” Non meritava niente di più. Il padre protegge i suoi figli, insegnavano i septon, ma Davos aveva condotto i suoi ragazzi dentro il fuoco. Dale non avrebbe mai dato a sua moglie il figlio per il quale avevano pregato così tanto. Allard, con quella sua ragazza a Vecchia Città e quell’altra ad Approdo del Re e quell’altra ancora a Braavos… Tutte loro presto avrebbero pianto. Matthos non avrebbe mai comandato una nave sua, come aveva sognato. E Maric non sarebbe mai diventato cavaliere.

“Come posso io vivere quando tutti loro sono morti? Così tanti cavalieri valorosi, così tanti audaci lord sono morti, uomini migliori di me, di nobile lignaggio. Striscia di nuovo nella tua caverna, Davos. Striscia là dentro, fatti piccolo piccolo. Quella nave passerà oltre e nessuno mai si prenderà più alcun disturbo per te. Dormi sul tuo giaciglio di pietra. Lascia che i gabbiani vengano a beccarti gli occhi, e che i granchi banchettino con le tue carni. Tu hai banchettato a sufficienza con le loro, di carni. Sei in debito con loro. Nasconditi, contrabbandiere. Nasconditi in silenzio. E muori.”

La vela era quasi su di lui. Ancora pochi momenti, e la nave avrebbe superato l’artiglio. E lui avrebbe potuto morire in pace.

Sollevò una mano fino alla gola, andando alla ricerca della piccola sacca di cuoio che portava sempre attorno al collo. Conteneva le ossa delle quattro dita che Stannis Baratheon, il suo re, gli aveva mozzato il giorno in cui aveva fatto Davos cavaliere. “La mia fortuna.” Le sue dita, prive delle ultime falangi, frugarono, tastarono, senza trovare niente. La sacca era svanita. E quindi anche le ossa erano svanite. Stannis non era mai stato in grado di comprendere per quale motivo lui avesse voluto conservarle.

«Per ricordarmi della giustizia del mio re» sussurrò Davos tra le labbra disseccate.

Ma adesso le reliquie di quella memoria non c’erano più. “Oltre ai miei figli, il fuoco verde si è portato via anche la mia fortuna.” Nei suoi sogni, nei suoi incubi, il fiume era ancora invaso dalle fiamme, demoni che danzano sull’acqua brandendo fruste di fuoco, uomini che bruciano, carbonizzati dalle frustate.

«Madre, abbi misericordia» pregò Davos. «Salvami, dolce Madre, salva tutti quanti noi. La mia fortuna se n’è andata, e anche i miei figli.» Cominciò a piangere, lacrime salmastre gli scivolarono lungo le guance. «Il fuoco ha preso tutto… Il fuoco…»

Forse fu solo il vento che soffiava sulle rocce, o forse fu il suono della risacca contro la riva pietrosa, eppure, per un istante, Davos Seaworth udì una risposta.