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«Tu hai chiamato il fuoco» bisbigliò la Madre, la sua voce esile come il suono delle onde all’interno di una conchiglia, una voce triste e remota. «Tu ci hai bruciati… Ci hai bruciati… Bruciatiii…»

«È stata lei!» gridò, Davos. «Madre, non abbandonarci. È stata lei a bruciarvi, la donna rossa, Melisandre… Lei

Riusciva a vederla, il viso a forma di cuore, gli occhi rossi, i lunghi capelli ramati, le gonne rosse che si torcevano come fiamme a ogni suo movimento, un vortice di seta e di satin. Era venuta dall’Est, dalla città magica di Asshai delle Ombre. Era venuta alla Roccia del Drago, conquistando alla causa del suo dio estraneo prima l’anima di Selyse, la moglie di Stannis, e poi anche quelle degli uomini della regina. Infine, aveva conquistato anche Stannis Baratheon. Lui era arrivato a porre il cuore fiammeggiante sui suoi vessilli. Il cuore di fuoco di R’hllor, Signore della luce, Dio della fiamma e dell’ombra. Cedendo alle pressioni di Melisandre, Stannis aveva trascinato i Sette Dèi fuori dal loro tempio alla Roccia del Drago e li aveva bruciati in un unico rogo davanti alle porte della fortezza. E in seguito, aveva anche dato fuoco al parco degli dèi di Capo Tempesta. Perfino l’albero del cuore aveva distrutto, un immenso albero-diga bianco con un volto solenne scolpito nel tronco.

«È stata opera di Melisandre» disse di nuovo Davos, più debolmente. “Opera di Melisandre, certo, ma anche opera tua, cavaliere della cipolla. Sei stato tu a portare a remi la donna rossa sotto Capo Tempesta, nel cuore della notte, in modo che lei potesse partorire dal proprio ventre quell’essere fatto d’ombra. Tu non sei privo di colpe, non lo sei affatto. Ti sei schierato sotto il suo vessillo, lo hai addirittura issato sul tuo albero maestro. Sei rimasto a guardare, senza fare nulla, mentre i Sette Dèi bruciavano alla Roccia del Drago. Alle fiamme, la donna rossa ha consegnato la giustizia del Padre, e la misericordia della Madre, e la saggezza della Vecchia. E ha consegnato il Fabbro e lo Sconosciuto, la Vergine e il Guerriero. Lei li ha bruciati tutti quanti per l’onore del suo dio crudele E mentre lo faceva, tu ti sei morso la lingua. Nemmeno quando lei ha assassinato l’anziano maestro Cressen, nemmeno allora, tu hai fatto nulla.”

La vela era distante un centinaio di iarde, e scivolava rapida attraverso la baia. Ancora pochi istanti e lo avrebbe superato, tornando ad allontanarsi per sempre.

Ser Davos Seaworth cominciò a scalare la roccia.

Si tirò su con le mani tremanti, la mente in delirio per la febbre. Per due volte le dita mozzate persero la presa sulla pietra umida, portandolo quasi a cadere. Ma in qualche modo riuscì a raggiungere la sommità dell’artiglio di granito. Se fosse caduto, sarebbe morto. Ma non doveva accadere, lui voleva vivere. Quanto meno, vivere un altro po’. Perché adesso c’era qualcosa che doveva fare.

La cima della roccia era troppo ridotta per potercisi ergere in piedi con sicurezza. Davos rimase inginocchiato, agitando le braccia scarne.

«Nave!» gridò nel vento. «Nave, qui… Qui!»

Da lassù riusciva a vedere meglio il vascello. Lo snello scafo dipinto a strisce, la polena di bronzo, la vela gonfiata dal vento. C’era un nome dipinto a prora, ma Davos non aveva mai imparato a leggere.

«Nave!» gridò di nuovo. «Aiuto… Aiutatemi!»

Un marinaio sul castello di prua lo vide, indicò. Davos rimase a osservare mentre altri marinai si raggruppavano attorno al trinchetto, fissandolo pieni di stupore. Poco tempo dopo, la vela venne ammainata e i remi messi in acqua. Il vascello virò in direzione della roccia. Era troppo grosso per avvicinarsi senza rischio alle secche. A una trentina di iarde di distanza, fu messa in mare una scialuppa. Davos continuò a restare aggrappato alla pietra, osservando la piccola imbarcazione venire verso di lui. Quattro uomini remavano, un quinto era seduto a prua.

«Tu» chiamò il quinto uomo, la scialuppa ad appena pochi passi dall’isola. «Tu, su quella roccia. Chi sei?»

“Un contrabbandiere che è riuscito a elevarsi” pensò Davos. “Uno stolto che troppo ha amato il suo re. E che ha dimenticato i suoi dèi.”

«Io…» aveva la gola arida, aveva dimenticato come si faceva a parlare. Le parole sortirono uno strano effetto sulla sua lingua, e risuonarono in modo ancora più strano nelle sue orecchie. «Io ero nella battaglia. Ero… un capitano, e… un cavaliere. Ero un cavaliere.»

«Sì, ser» rimandò l’uomo. «Al servizio di quale re?»

La galea sarebbe potuta appartenere alla flotta di Joffrey, Davos se ne rese conto all’improvviso. Se lui ora avesse pronunciato il nome sbagliato, il vascello se ne sarebbe andato, abbandonandolo al suo destino. Ma no… Quello scafo a strisce. Era una nave di Lys, una nave di Salladhor Saan. Era stata la Madre a mandarla, la Madre nella sua misericordia. Lo aveva fatto perché aveva una missione da affidargli. “Ho ancora un re. E dei figli. Sì, ho altri figli. E una moglie leale, devota.” Come aveva potuto scordarsene? La Madre era veramente misericordiosa.

«Stannis» gridò Davos in risposta al marinaio lyseniano. «Gli dèi siano generosi, servo re Stannis.»

«Così sia» disse l’uomo sulla scialuppa «lo serviamo anche noi.»

SANSA

Come invito, appariva quanto mai innocente. Eppure, ogni volta che Sansa Stark lo rileggeva, sentiva una mano invisibile afferrarle il ventre.

“Adesso è lei che diventerà regina. È bella e ricca e tutti la amano… Per quale ragione vorrebbe cenare con la figlia di un traditore?” Forse era solo curiosità, ipotizzò Sansa. Forse Margaery Tyrell voleva semplicemente farsi un’idea della rivale su cui aveva prevalso. “Che nutra del risentimento verso di me? Questo mi chiedo. Che sospetti che io le voglia male…”

Dalle mura della Fortezza Rossa, Sansa aveva osservato Margaery Tyrell e la sua scorta salire l’alta collina di Aegon. Joffrey aveva incontrato la sua promessa sposa alla Porta del re, dandole il benvenuto nella città. Avevano cavalcato fianco a fianco tra ali di folla plaudente, Joffrey scintillante nella sua armatura istoriata, la fanciulla Tyrell splendida in un abito verde, con una cappa ricamata con i fiori dell’autunno drappeggiata sulle spalle. Aveva sedici anni, capelli e occhi castani. Era snella e bellissima. Al suo passaggio, il popolo chiamava il suo nome, sollevava i figli perché lei li benedicesse e spargeva fiori davanti agli zoccoli del suo cavallo. Sua madre e sua nonna la seguivano poco più indietro, a bordo di un’alta casa viaggiante i cui lati erano scolpiti nella forma di centinaia di rose intrecciate, dipinte d’oro e brillanti. Il popolino applaudì anche al loro passaggio.

“Lo stesso popolino che ha trascinato me giù di sella, lo stesso popolino che stava per uccidermi, se a proteggermi non fosse intervenuto il Mastino.”

Sansa non aveva fatto nulla perché la gente del volgo la odiasse, non più di quanto Margaery Tyrell avesse fatto per conquistarsi il loro amore. “Vuole forse che la ami anch’io?” Esaminò nuovamente l’invito, che sembrava vergato da Margaery di suo pugno. “Vuole la mia benedizione?” Sansa si domandò se Joffrey fosse a conoscenza di quella cena. Magari era addirittura opera sua; un pensiero che la riempì di paura. Se c’era Joff dietro l’invito, aveva di certo allestito un qualche scherzo crudele per svergognarla agli occhi della ragazza più grande. Avrebbe di nuovo dato ordine agli uomini della sua Guardia reale di denudarla, strappandole i vestiti di dosso? L’ultima volta che lo aveva fatto, suo zio Tyrion lo aveva fermato, ma questa volta il Folletto non era più in condizioni di aiutarla.

“Nessuno può salvarmi, tranne il mio Florian.” Ser Dontos le aveva promesso di aiutarla a fuggire, ma non prima della notte del matrimonio di Joffrey. I piani erano stati preparati con cura, le aveva assicurato il suo caro, devoto cavaliere tramutato in giullare. Non c’era altro da fare se non resistere, contando i giorni.