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I suoi fedeli dothraki, diffidando di qualsiasi liquido un cavallo non potesse bere, definivano il mare “l’acqua velenosa”. Il giorno in cui le tre navi avevano salpato le ancore da Qarth, si sarebbe detto che non stessero facendo rotta per la città libera di Pentos ma per l’inferno. I tre giovani, coraggiosi cavalieri di sangue di Daenerys avevano continuato a osservare la costa che svaniva con occhi enormi, dilatati, ognuno dei tre deciso a non mostrarsi pauroso per primo. Irri e Jhiqui, le sue ancelle, erano rimaste disperatamente aggrappate alle murate, vomitando fuori bordo a ogni più piccola onda. Il resto del piccolo khalasar della regina dei draghi era rimasto sotto coperta, preferendo la compagnia dei loro nervosi cavalli allo spaventoso mondo totalmente privo di terra che circondava gli scafi. Quando, al sesto giorno di navigazione, un’improvvisa mareggiata si era abbattuta su di loro, Daenerys aveva udito le urla della sua gente dai boccaporti: i cavalli scalciavano e nitrivano; i cavalieri pregavano con strilli sempre più acuti ogni volta che la Balenon rollava o beccheggiava.

Ma nessuna mareggiata sarebbe riuscita a spaventare lei: Daenerys Nata dalla tempesta. Quando, urlando, aveva fatto il suo ingresso nel mondo sulla remota isola della Roccia del Drago, la più furibonda tempesta nella memoria del continente occidentale infuriava sul cielo e sulla terra. Una tempesta talmente devastante da sradicare le colossali statue di pietra dalle mura della fortezza e da spazzare via l’intera flotta di suo padre.

Il mare Stretto era spesso tempestoso. Da piccola, Daenerys lo aveva attraversato decine di volte, fuggendo da una città libera all’altra per far perdere le proprie tracce alle lame assassine assoldate dall’Usurpatore. Amava il mare. Le piacevano il pungente odore di salmastro che pervadeva l’aria, la vastità degli orizzonti delimitati solamente dalla cupola del cielo azzurro. La faceva sentire minuscola, il mare, ma la faceva anche sentire libera. Le piacevano i delfini che a volte nuotavano attorno alla Balerion, fendendo le onde simili a lance argentate, e sorrideva ai pesci volanti che si vedevano ogni tanto. Le piacevano perfino i marinai, con tutte le loro canzoni e le loro storie. Una volta, nel corso di un viaggio verso Braavos, osservando l’equipaggio che lottava per ammainare una grande vela verde prima dello scatenarsi di una tempesta, era addirittura arrivata a pensare che le sarebbe piaciuto diventare anche lei un marinaio. Ma quando lo aveva confessato a Viserys, suo fratello maggiore, lui le aveva tirato i capelli fino a farla gridare di dolore. «Tu sei il sangue del drago» le aveva urlato in faccia «del drago, non di un qualche pesce puzzolente.»

“È stato stupido. Quella volta e anche molte altre” pensò Dany. “Se fosse stato più saggio, più paziente, adesso ci sarebbe lui qui, a veleggiare verso ovest, per andare a riprendersi il trono che era suo di diritto.” Invece Viserys era stato stupido e cattivo, di questo Daenerys si rendeva conto, ma continuava comunque a sentirne la mancanza, a volte. Non dell’uomo crudele che lui era diventato alla fine, ma del fratello che nelle notti oscure le permetteva d’infilarsi nel suo letto, il ragazzo che le raccontava storie dei Sette Regni, che le prometteva una vita più felice nel momento in cui lui avesse finalmente riconquistato la corona che gli apparteneva.

«Maestà.» Il capitano apparve al fianco di Dany. «Quanto vorrei che questa Balerion potesse volare come suggerisce il suo nome.» Le parlò nel valyriano imbastardito delle città libere, reso ancora più ostico da un pesante accento di Pentos. «In quel caso, non avremmo bisogno di remare, né di trainare, né di pregare perché si alzi il vento.»

«Concordo, capitano» gli rispose lei con un sorriso, compiaciuta di essersi conquistata la fiducia di quell’uomo. Il capitano Groleo era un vecchio pentoshi, proprio come il suo padrone, il magistro Illyrio Mopatis. All’idea di trasportare tre draghi a bordo della propria nave, Groleo si era sentito nervoso quanto una verginella la prima notte di nozze. Non meno di una cinquantina di secchi pieni d’acqua di mare erano stati appesi al trinchetto, nel caso fosse scoppiato un incendio. Sulle prime, Groleo aveva voluto che i draghi fossero messi in gabbia. Per placare le sue paure, Daenerys aveva acconsentito, ma poi, con il disagio dei draghi fin troppo palpabile, aveva cambiato idea, insistendo che venissero rimessi in libertà.

Adesso, perfino il capitano era lieto di quella decisione. C’era stato solamente un piccolo incendio, subito spento. Per contro, all’improvviso, a bordo della Balerion sembravano esserci molti meno topi da sentina rispetto all’epoca in cui la nave prendeva il mare sotto il nome di Saduleon. Quanto agli uomini dell’equipaggio, inizialmente incerti se ritenersi più spaventati o più curiosi, avevano cominciato a sviluppare uno strano orgoglio riguardo ai loro draghi. Tutti, dal capitano fino all’ultimo sguattero, amavano vederli volare… anche se nessuno poteva competere con il livello di adorazione che provava Dany.

“Sono i miei figli” ripeté a se stessa. “E se la maegi ha detto il vero, sono gli unici figli che mai avrò.”

Le scaglie di Viserion erano del colore della crema fresca, le corna, le ossa delle ali e la cresta dorsale avevano una sfumatura oro cupo che scintillava come metallo sotto i raggi del sole. In Rhaegal dominavano il verde dell’estate e il bronzo dell’autunno. I due draghi volteggiavano sulle navi in ampi cerchi, ad altitudini sempre maggiori, ognuno che cercava di salire più dell’altro.

I draghi preferivano sempre attaccare dall’alto, aveva scoperto Dany. Quando uno si frapponeva tra un altro e il sole, il primo richiudeva le ali e calava in picchiata urlando. Entrambi precipitavano dal più alto dei cieli in un’aggrovigliata sfera di scaglie, con uno schiocco di mandibole e un frustare di code. La prima volta che lo avevano fatto, Dany aveva temuto che stessero cercando di uccidersi a vicenda. Ma non era altro che un gioco. Nel momento in cui colpivano l’acqua, si staccavano e tornavano a sollevarsi, gridando e sibilando, l’acqua salmastra che evaporava dai loro corpi mentre le ali mordevano nuovamente l’aria. Anche Drogon, il drago nero, era in volo, ma più lontano degli altri. Era intere miglia più avanti o più indietro dei fratelli, e passava il suo tempo a cacciare.

Era sempre affamato, il suo Drogon. “Affamato, certo. E cresce in fretta. Un altro anno, forse due, e sarà diventato grosso abbastanza da poterlo cavalcare. In quel momento, non avrò più bisogno di navi per varcare il grande mare salato.”

Ma quel momento non era ancora arrivato. Rhaegal e Viserion avevano la taglia di un cane piccolo, Drogon era di poco più massiccio, ma praticamente qualsiasi cane pesava più di loro. I corpi dei draghi erano tutti ali, collo e coda, più leggeri di quanto apparivano. Così, per fare ritorno a casa, Daenerys Targaryen era ancora costretta a servirsi del legno, della tela e del vento.

Per un po’, il legno e la tela l’avevano servita bene, ma poi il volubile vento l’aveva tradita. Erano ormai sei giorni e sei notti, che durava la bonaccia. Questo era il settimo giorno, e ancora non c’era traccia di un soffio d’aria che potesse riempire le vele. Fortunatamente, le altre due navi che magistro Illyrio aveva inviato erano galee mercantili, dotate di duecento remi l’una e di equipaggi composti da uomini forti e muscolosi. Il grande scafo della Balerion invece era tutt’altra questione: una nave pesante con una prua ampia, stive immense e vele enormi, del tutto inerte in calma di vento. La Vhagar e la Meraxes, le due galee, avevano lanciato delle funi per farla avanzare al traino, ma i progressi erano dolorosamente ridotti. Tutte e tre le navi erano affollate, e cariche al massimo.