Tagliò attraverso estensioni di erbacce marroni, fendendo erba alta fino alla vita di un uomo e mucchi di foglie secche che turbinarono nell’aria al passaggio del cavallo. C’erano dei boschi sulla sinistra, vide Arya. “Là in mezzo posso seminarli.” Un fossato secco correva lungo uno dei lati del campo, Arya lo saltò senza neppure perdere il ritmo, facendo irruzione in un folto di olmi, lecci e betulle. Un altro rapido sguardo indietro: Anguy e Harwin le stavano sempre alle calcagna, ma Barbaverde era molto distaccato, quanto a Lem non riusciva più nemmeno a vederlo.
«Più in fretta» disse al purosangue. «Puoi farcela, puoi farcela!»
Passò tra due olmi, senza fermarsi a vedere da che parte del tronco crescesse il muschio. Saltò un ramo marcio, aggirò un albero caduto dall’aspetto mostruoso, irto di rami spezzati. Salì un leggero declivio e ridiscese per il versante opposto, rallentando e poi riprendendo velocità. Gli zoccoli del cavallo lanciarono scintille sulle pietre disseminate sul terreno. Sulla cima dell’altura, Arya guardò nuovamente indietro. Harwin era in vantaggio su Anguy, ma nessuno dei due dava segno di voler cedere. Barbaverde aveva perduto ancora più terreno e sembrava ormai fuori dalla caccia.
Arya trovò un torrente che le sbarrava la strada. Entrò nell’acqua sollevando fontane di spruzzi, mentre il cavallo si faceva strada tra la melma delle foglie in decomposizione. Quando arrivò sulla sponda opposta, alcune gli rimasero appiccicate alle zampe. Il sottobosco era più folto, qui. E il terreno era talmente disseminato di rocce e di radici sporgenti che Arya fu costretta a rallentare, ma tenne comunque un buon passo. Davanti a lei c’era un’altra collina, più ripida della precedente. Salì anche quella, e poi ridiscese sul versante opposto.
“Ma quanto sono grandi questi boschi?” Il cavallo più veloce era il suo, Arya lo sapeva. Dei tre animali che avevano rubato nelle stalle di Harrenhal, questo era uno dei migliori di Roose Bolton. Solo che, su quel tipo di terreno, la sua velocità era sprecata. “Devo tornare nei campi. E devo trovare una strada.”
Ma al posto di una strada trovò solo una pista lasciata da animali. Era stretta e sconnessa, ma era pure sempre qualcosa. Si precipitò lungo il tracciato, rami bassi la frustarono sul viso. Uno di essi le strappò il cappuccio e, per un terribile istante, Arya pensò che l’avessero ripresa. Una volpe schizzò fuori da un cespuglio, correndo nel folto, spaventata dalla furia del suo passaggio. La pista la portò fino a un altro torrente. O forse invece era lo stesso di prima? Non c’era il tempo per scoprirlo: dietro di sé udiva i cavalli degli inseguitori che si aprivano la strada tra gli alberi. Spine le lacerarono il volto, proprio come le unghie dei gatti a cui, tanto tempo prima, lei aveva dato la caccia nelle strade di Approdo del Re. Uno stormo di rondini si sollevò dalla chioma di un ontano. Ma ora gli alberi stavano cominciando a diradarsi. Di colpo, Arya fu di nuovo in terreno aperto. Distese di campi si dilatavano davanti a lei, distese di erba e di avena selvatica, le piante erano fradice di pioggia e schiacciate dal vento. Diede nuovamente di speroni e si lanciò al galoppo.
“Corri” pensò. “Corri a Delta delle Acque, corri a casa.” Era riuscita a seminarli? Gettò un altro sguardo dietro di sé… Harwin era lì, a meno di sei iarde, che guadagnava terreno. “No! Non è possibile, non lui. Questo non è giusto…”
I cavalli erano coperti di sudore livido ed erano ormai senza fiato. Harwin guadagnò terreno, allungò una mano e afferrò le redini del purosangue di Arya. Anche Arya aveva il fiato grosso. E sapeva che la sua fuga era finita.
«Cavalchi come un uomo del Nord, milady» disse Harwin, facendo fermare entrambi gli animali. «Tua zia, lady Lyanna, cavalcava nello stesso modo. Ma mio padre era mastro dei cavalli, ricordalo.»
Lei gli rivolse uno sguardo carico di dolore. «Pensavo che tu fossi un uomo di mio padre.»
«Lord Eddard è morto, milady. Io adesso appartengo al lord della folgore, e ai miei fratelli.»
«Quali fratelli?» Che Arya potesse ricordare, il vecchio Hullen non aveva altri figli oltre ad Harwin.
«Anguy, Lem, Tom Settecorde, Jack, Barbaverde, tutti quanti loro. Non auguro nulla di male a tuo fratello Robb, milady… ma non è per lui che noi combattiamo. Lui ha un grande esercito tutto suo, e molti alti lord che s’inginocchiano al suo cospetto. Il popolino ha solamente noi.» Le lanciò un’occhiata densa di significati. «Riesci a comprendere quello che ti dico?»
«Sì.»
Harwin non era nemmeno un uomo di Robb, questo lo comprendeva. E lei era sua prigioniera, anche questo lo comprendeva fin troppo bene. “Avrei potuto rimanere assieme a Frittella. Avremmo potuto prendere quella piccola barca e andarcene su il fiume fino a Delta delle Acque.” Quanto a lei, avrebbe dovuto continuare a farsi chiamare Pulcino. Nessuno avrebbe perso tempo a prendere prigioniera Pulcino, o Nan, o Donnola, o Arry il ragazzo orfano. “Ero un lupo” pensò. “Ma adesso sono tornata a essere una stupida ragazzina da niente.”
«Tornerai con me in pace» le chiese Harwin. «O mi costringerai a legarti e gettarti di traverso sulla sella?»
«Tornerò in pace» rispose Arya in tono cupo. “Per ora.”
SAMWELL
Ansimando, Samwell Tarly fece un altro passo. “Questo è l’ultimo, davvero l’ultimo. Non ce la faccio ad andare avanti, non ce la faccio proprio.” Ma i suoi piedi continuarono a muoversi. Il destro, e poi il sinistro, e poi di nuovo il destro. Un passo e dopo un altro. “Non sono i miei piedi, appartengono a qualcun altro. È quest’altro che cammina, non posso essere io.”
Abbassò lo sguardo e li vide aprirsi la strada nella neve, cose goffe, prive di forma. I suoi stivali erano neri, questo gli sembrava di ricordarlo, ma ora le neve si era incrostata sul cuoio, tramutandoli in deformi sferoidi bianchi. Parevano due blocchi di ghiaccio.
La neve non aveva fine. I cumuli gli arrivavano alle ginocchia, altre croste gli si erano formate sulla parte inferiore delle gambe, simili a placche congelate. I sui passi erano strascicati, sussultanti. Il pesante zaino che aveva sulla schiena lo faceva apparire come una specie di gobbo deforme. Ed era tanto stanco, tanto stanco. “Non posso andare avanti. Madre, abbi misericordia.”
Ogni quattro o cinque passi era costretto ad afferrarsi il cinturone della spada e a tirarlo su. La spada l’aveva perduta sul Pugno dei Primi Uomini, ma il fodero continuava a essere appeso al cinturone. Sam aveva ancora i due pugnali, la daga che gli aveva dato Jon Snow, con la lama fatta di vetro di drago, e quello d’acciaio, con cui tagliava la carne. Era altro peso da trascinarsi dietro. Peggio ancora, il suo ventre era talmente grosso e tondo che, a dispetto di quanto stringesse la fibbia, se si fosse dimenticato di tirare periodicamente su il cinturone questo avrebbe finito per scivolare al suolo, attorcigliandosi alle caviglie. Una volta, aveva anche provato a serrare la fibbia al di sopra del girovita, ma il cinturone gli era salito fin quasi alle ascelle. A quella vista, Grenn si era quasi spaccato in due dalle risate. Quanto a Edd l’Addolorato, il suo commento era stato: «Conoscevo un individuo che portava la spada appesa a una catena attorno al collo. Un giorno però è scivolato e l’elsa gli ha attraversato il naso».
Anche Sam continuava a scivolare. C’erano rocce in agguato sotto il manto nevoso, e radici sporgenti, e a volte buche profonde nel terreno congelato. Tre giorni prima, Bernarr il Nero era finito in una buca e si era spezzato una caviglia. O forse era stato quattro giorni prima? O addirittura… in realtà, Sam non sapeva quanto tempo fosse passato, con esattezza. In ogni caso, dopo l’incidente, il lord comandante aveva messo Bernarr in sella a uno dei cavalli.
Con un singulto, Sam fece un altro passo. Gli sembrava di cadere più che di camminare. Una caduta senza fine, ma senza mai picchiare contro il terreno. Solo cadere e cadere e cadere. “Devo fermarmi. Fa troppo male. E fa così freddo, e io sono così stanco. Devo dormire. Solo per poco, vicino al fuoco. E magari mangiare qualcosa che non sia congelato.”