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«Quella non la ritroviamo più, e la colpa la daranno a me» annunciò Edd Tollett, il cupo scudiero dai capelli grigi che tutti chiamavano Edd l’Addolorato. «Da quando ho perso il cavallo, ogni volta che manca qualcosa è con me che se la prendono. Come se avessi potuto fare diversamente… Il cavallo era bianco e stava nevicando, che cosa si aspettavano?»

«Se l’è presa il vento, quella freccia» intervenne Grenn, un altro degli amici di lord Snow. «Cerca di tenere fermo l’arco, Sam.»

«È pesante» si lamentò il ragazzo, ma incoccò ugualmente la seconda freccia, che questa volta volò troppo alta, sibilando tra i rami almeno dieci piedi al di sopra del bersaglio.

«Direi che hai portato via qualche foglia» disse Edd l’Addolorato. «L’autunno avanza abbastanza in fretta, non c’è bisogno di aiutarlo.» Sospirò. «E lo sappiamo tutti che cosa viene dopo l’autunno. Per gli dèi, m’è venuto freddo! Lancia quell’ultima freccia, Samwell, che mi si sta gelando la lingua contro il palato.»

Messer Porcello abbassò l’arco. «È troppo difficile.» Chett pensò che si sarebbe messo a frignare.

«Incocca, tendi, lancia» lo incoraggiò Grenn. «Forza.»

Diligentemente, il ragazzo estrasse la terza freccia dal suolo, la incoccò nell’arco lungo, tese, lanciò. Lo fece con rapidità, senza strizzare prima un occhio e poi l’altro, come aveva fatto le due volte precedenti. Il dardo centrò la sagoma tracciata con il carboncino nella zona del basso torace e rimase conficcata nel legno, vibrando.

«L’ho colpito!» Messer Porcello sembrava stupefatto. «Grenn, ma hai visto? Edd, guarda, l’ho colpito!»

«Dritto nelle costole, mi pare» rilevò Grenn.

«L’ho ucciso?» volle sapere il ragazzo.

«Gli avresti perforato un polmone.» Tollett scrollò le spalle. «Se lo avesse, un polmone. La maggior parte degli alberi non ce li ha, di regola.» Tolse l’arco di mano a Sam. «Ho visto tiri peggiori. Be’, e ne ho fatti anch’io, di peggiori.»

Messer Porcello era raggiante. A guardarlo, c’era da pensare che avesse davvero compiuto una qualche eroica impresa. Ma nel momento in cui vide Chett e i cani, il suo sorriso s’incrinò e morì con un gemito.

«È un albero che hai colpito» disse Chett. «Vedremo come lancerai contro i guerrieri di Mance. Perché loro non staranno li fermi a braccia aperte e con le foglie che stormiscono, oh, no. Ti verranno dritti contro, urlandoti in faccia, e io ci scommetto che ti piscerai nelle brache. Uno di loro verrà a piantarti l’ascia proprio in mezzo a quei tuoi occhi da scrofa. E l’ultima cosa che sentirai sarà il tonfo del ferro che ti spacca il cranio.»

Il ragazzo grasso stava tremando. «Fratello» Edd l’Addolorato pose una mano sulla spalla di Chett «solo perché è successo a te, non significa che debba succedere anche a Samwell.»

«Ma di che stai parlando, Tollett?»

«Dell’ascia che ha spaccato il tuo, di cranio. È vero che metà del tuo buonsenso è colato per terra e che poi se lo sono mangiato i cani?»

Grenn, quell’idiota grande e grosso, si mise a ridere. Perfino Samwell Tarly riuscì a tirare fuori un debole sorriso. Chett assestò un calcio al cane più vicino, diede uno strattone ai guinzagli e riprese a salire la collina. “Sorridi, Messer Porcello, sorridi pure quanto vuoi. Lo vedremo questa notte chi riderà.” Quanto avrebbe voluto avere il tempo per sgozzare anche Tollett. “Tetro idiota dal muso di cavallo che non sei altro.”

La salita era ripida, perfino da quel lato del Pugno, che pure era il versante meno impervio. Circa a metà del percorso, i cani, sempre con l’idea del cibo, si misero ad abbaiare e a strattonare. Di nuovo, Chett fece gustare loro la punta dello stivale, colpendo con una frustata quello grosso e brutto che gli aveva ringhiato in faccia. Dopo averli messi alla catena, andò a fare rapporto.

«Le impronte erano là dove aveva detto Gigante» riferì a Mormont, davanti alla sua grande tenda nera. «Giù sulla riva del fiume, ma forse erano impronte vecchie.»

«Peccato.» Jeor Mormont, lord comandante dei Guardiani della notte, aveva il cranio calvo e una lunga, ispida barba grigia. La sua voce era stanca quanto la sua faccia. «A tutti noi, avrebbe fatto un gran bene un po’ di carne fresca.»

Il corvo appollaiato sulla sua spalla mosse la testa su e giù. «Carne, carne, carne» fece eco.

“Potremmo sempre mangiarci quei cani fottuti.” Invece di proporlo, Chett tenne la bocca chiusa fino a quando il Vecchio orso non lo congedò. “E questa è l’ultima volta che m’inchino per te” rimuginò tra sé con soddisfazione.

Gli parve che stesse facendo addirittura più freddo, anche se era pronto a giurare che non fosse possibile, in natura, sentire ancora più freddo di così. I cani erano rannicchiati gli uni contro gli altri nel duro fango congelato, e Chett resistette alla tentazione di andare a rannicchiarsi assieme a loro. Invece, si avvolse la sciarpa di lana nera intorno al collo e al viso, lasciando solo una fessura per la bocca. Scoprì che sentiva più caldo se continuava a muoversi, così camminò lentamente lungo il perimetro difensivo. Portò con sé una manciata di foglie amare, e ne diede alcune da masticare a un paio dei confratelli neri che montavano la guardia, fermandosi ad ascoltare quello che avevano da dire. Nessuno degli uomini del turno di giorno faceva parte del suo piano, ma non era male avere comunque un’idea di che cosa pensavano.

Più che altro, pensavano che facesse un freddo maledetto.

Il vento soffiava più forte e le ombre si allungavano. Fischiando sui bordi aspri dell’anello di pietra che circondava la sommità del Pugno dei Primi Uomini, produceva un sibilo lamentoso. «Quanto lo odio, questo rumore» disse il piccolo confratello chiamato Gigante. «Sembra un bambino in fasce che piange per avere il latte.»

Completato il giro e tornato presso i cani, Chett trovò Lark ad aspettarlo. «Gli ufficiali sono nuovamente riuniti nella tenda del Vecchio orso, tutti parlano fitto fitto.»

«È quello che fanno sempre» commentò Chett. «Sono tutti nobili, tranne Blane, e si ubriacano di parole invece che di vino.»

Lark gli si accostò. «Zucca di montone continua a menarla con l’uccello che parla» avvertì, gettandosi intorno occhiate guardinghe, per vedere se vi fosse qualcuno troppo vicino. «Adesso chiede se abbiamo messo da parte del grano, per quel maledetto coso.»

«È un corvo» rispose Chett. «Mangia le carcasse.»

«La sua?» sogghignò Lark. «Per davvero?»

“O magari la tua.” Chett era dell’idea che avessero molto più bisogno del gigante che di Lark. «Falla finita di rincretinirti con Piccolo Paul. Tu fa’ la tua parte, lui farà la sua.»

Il crepuscolo stava avanzando nella foresta quando Chett finalmente riuscì a togliersi Lark dai piedi e poté sedersi ad affilare la spada. Era un lavoro dannatamente difficile da fare con i guanti, ma non era proprio il caso di toglierli. Con il freddo che faceva, l’idiota che avesse toccato il metallo a mani nude avrebbe perso intere strisce di pelle.

Quando il sole scomparve sotto l’orizzonte, i cani uggiolarono. Chett diede loro una ciotola d’acqua e una caterva d’insulti. «Ancora qualche ora, e sarà il vostro turno di banchettare.» A quel punto, gli arrivò l’odore della cena.

Attorno al fuoco del rancio, Dywen teneva banco. Da Hake, il cuoco, Chett ottenne la sua razione di zuppa di fagioli e pancetta affumicata, accompagnate da pane duro.

«C’è troppo silenzio nella foresta» disse l’anziano esploratore. «Niente rane presso il fiume, niente gufi tra gli alberi. Non ho mai sentito una foresta più morta di questa.»

«Ma pensa ai denti che hai in bocca: sono quelli i più morti di tutti» commentò Hake.

Dywen fece schioccare la sua doppia chiostra di legno. «E nemmeno lupi. Ce n’era, ma adesso non ce n’è più. Dov’è che se ne sono andati? direte.»