Il meta-lupo rispose con un basso ringhio di avvertimento, mostrando le zanne. Era più grosso dei suoi cugini, almeno il doppio dell’ultimo della gerarchia e una volta e mezzo i due capi. Spiccò un balzo, atterrando in mezzo al gruppo. Tre di loro ruppero la formazione, svanendo nel bosco. Un quarto gli andò incontro, le mandibole aperte. Lui affrontò l’assalto senza muoversi. All’urto, le sue zanne si serrarono attorno a una delle zampe del rivale, e con un movimento del collo lo scaraventò di lato, uggiolante e zoppicante.
E poi rimase solo il capobranco da fronteggiare, il grande maschio grigio con il muso ancora gocciolante del sangue della preda. Aveva una chiazza bianca sul muso, segno che si trattava di un vecchio lupo. Ma quando aprì la bocca, bava rossa colò dalle zanne.
“Non ha paura” capì il principe. “Non più di me.” Sarebbe stato un bel combattimento. Si avventarono uno contro l’altro.
A lungo lottarono, rotolando su radici, pietre e foglie putrescenti. E sulle viscere della preda sparse al suolo. Lottarono con gli artigli e con i denti, prima avvinghiati e poi, spezzando il contatto, girando uno attorno all’altro, per tornare a colpirsi con ancora più forza. Il principe era più grosso, e molto più forte ma quel cugino aveva il sostegno di un branco dalla sua. La femmina rimase in agguato lì vicino, soffiando e ringhiando, mettendosi in mezzo ogni volta che il maschio si staccava sanguinando. Di quando in quando, anche gli altri lupi si gettavano nello scontro, mordendo una gamba, un orecchio del principe, ogni volta che era girato. Uno di loro lo fece davvero inferocire: fu un’unica, dilagante ondata di furore nero. Il principe si lanciò in avanti e squarciò la gola all’avversario con un folgorante affondo purpureo. Dopo questo, gli altri si tennero a distanza.
Con l’ultima luce rossastra del giorno che filtrava nel verde della foresta, il vecchio lupo sconfitto si distese cautamente sul terreno. Rotolò sul dorso, esponendo la gola e il ventre. Era l’atto di sottomissione.
Il principe lo annusò, leccandogli il sangue dalla pelliccia e dalla carne sbranata. Il vecchio lupo emise un debole guaito e il meta-lupo si allontanò. A quel punto, aveva molta fame. E a quel punto, la preda era sua.
«Hodor.»
Fu un suono improvviso, che lo fece fermare mostrando le zanne. I lupi lo osservavano con occhi verdi e gialli, scintillanti nella luce del giorno morente. Nessuno di loro lo aveva udito. Strano come le uniche orecchie ad averlo percepito fossero state le sue. Affondò le mascelle nel ventre del cervo e strappò vìa un boccone di carne.
«Hodor, Hodor.»
“No” pensò. “No, non voglio.”
Era un pensiero del ragazzo, non del meta-lupo.
Tutto attorno a lui, la foresta divenne più scura, fino a quando rimasero soltanto le ombre degli alberi, e gli occhi lampeggianti dei suoi cugini. E fu in mezzo a quegli occhi, oltre quegli occhi, che lui vide la faccia sogghignante di uomo grande e grosso. Un uomo che aveva alle spalle una volta di pietra, i massi costellati di salnitro. Dal palato del lupo, il ricco gusto del sangue svanì. “No, non voglio, non voglio! Voglio mangiare, voglio…”
«…Hodor, hodor, hodor, hodor, hodor…»
Il gigante dalla mente semplice continuava a cantilenare, scuotendolo piano per una spalla, avanti e indietro, avanti e indietro. Stava cercando di essere gentile, ma Hodor era alto più di sei piedi e molto più forte di quanto lui stesso non si rendesse conto. Le sue mani enormi stavano facendo sbattere senza tregua i denti di Bran.
«No!» gridò rabbiosamente Bran. «Hodor, lasciami andare. Sono qui… Sono qui!»
Hodor si fermò, l’espressione rattristata. «Hodor?»
La foresta, i lupi… Tutto svanito. Bran era tornato, era di nuovo nella cripta umida di una qualche antica torre di guardia, probabilmente abbandonata migliaia di anni prima. Non ne restava granché. Le pietre crollate erano coperte di cespugli e di muschio al punto che era pressoché impossibile vederle fino a quando non ci si arrivava proprio sopra.
“Torre del crollo”, così Bran aveva chiamato quelle rovine. Ma a trovare l’accesso alla cripta era stata Meera.
«Sei stato sotto troppo a lungo» disse Jojen Reed.
Aveva tredici anni, appena quattro più di Bran. Non era molto più alto di lui, cinque, forse mezza spanna in tutto, ma parlava sempre in un certo modo solenne che lo faceva sembrare più vecchio e più saggio di quanto non fosse in realtà. A Grande Inverno, quando ancora Grande Inverno esisteva, la vecchia Nan lo aveva soprannominato Jojen “il piccolo nonno”.
Bran corrugò la fronte. «Volevo mangiare.»
«Meera tornerà presto con qualcosa per cena.»
«Non ne posso più di rane.»
Meera, la sorella maggiore di Jojen, era una mangia-ranocchie dell’Incollatura. Bran sapeva di non potere realmente biasimarla per prendere sempre tante rane, ma nonostante questo…
«Era del cervo che volevo mangiare» aggiunse. Per un momento, gli tornò alla mente il gusto del sangue, dell’umida carne ancora pulsante di vita. E gli tornò l’acquolina in bocca. “Ho vinto io la lotta per quella preda. Ho vinto io.”
«Hai marcato gli alberi?»
Bran arrossì. Jojen gli diceva sempre di fare una cosa o un’altra quando lui apriva il terzo occhio, e indossava la pelle di Estate, il suo meta-lupo. Artigliare la corteccia di un albero, prendere un coniglio e riportarlo da loro senza averlo divorato, spingere delle pietre a formare una linea. “Cose stupide.”
«Mi sono dimenticato» disse.
«Tu ti dimentichi sempre.»
Era vero. Lui voleva fare le cose che Jojen gli chiedeva di fare, ma nel momento in cui diventava lupo, non apparivano più molto importanti. C’erano sempre altre cose da vedere e da annusare, e un intero vasto mondo verde in cui cacciare. E poi, da lupo, lui poteva finalmente correre! Non c’era niente di più bello di correre, solo correre libero dietro a una preda.
«Ero un principe, Jojen» disse Bran al ragazzo più grande. «Il principe della foresta.»
«Tu sei un principe» sottolineò Jojen a bassa voce. «Questo lo ricordi, non è vero? Dimmi chi sei.»
«Lo sai chi sono.» Jojen era suo amico e suo maestro, ma certe volte a Bran veniva voglia di prenderlo a pugni.
«Voglio che tu pronunci le parole. Dimmi chi sei.»
«Bran» rispose lui cupamente. “Bran lo Spezzato.” «Brandon Stark.» “Il ragazzo storpio.” «Principe di Grande Inverno.»
Di una Grande Inverno bruciata e distrutta; le sue genti disperse, massacrate. Le serre ridotte a pezzi, l’acqua bollente del sottosuolo che sgorgava dalle mura sventrate, emanando vapore nella luce del sole. “Come si può essere il principe di un luogo che potrei non rivedere mai più?”
«E chi è Estate?» insistette Jojen.
«Il mio meta-lupo:» Bran sorrise. «Principe dei boschi.»
«Bran il ragazzo ed Estate il lupo. Tu sei due esseri, quindi?»
«Due» sospirò lui. «E uno solo.» Odiava Jojen quando faceva lo stupido a quel modo. “A Grande Inverno voleva che facessi i sogni del lupo. E adesso che ho imparato a sognarli, non fa altro che riportarmi indietro.”
«Ricorda, Bran. Ricordati di te stesso, altrimenti sarà il lupo a consumarti. Quando tu e lui diventate uno, correre e cacciare e ululare nella pelle di Estate non basta.»
“Basta a me” pensò Bran. E la pelle di Estate gli piaceva molto di più della sua, di pelle. “A che serve essere un metamorfo se non puoi prendere la forma che più ti piace?”
«Riuscirai a ricordare?» insistette Jojen. «La prossima volta, marca un albero. Qualsiasi albero, non ha importanza, basta che tu lo faccia.»