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Ci sarebbe stata anche lei ad aspettarlo alla Roccia del Drago, forte della sua bellezza e del suo potere, assieme al suo dio, alle sue ombre e al suo re. La sacerdotessa delle Ombre godeva della fiducia incondizionata di Stannis Baratheon, fino a quel momento. “Lo ha reso docile, nello stesso modo in cui un uomo addomestica un cavallo selvaggio. Gli monterebbe in sella e galopperebbe con lui fino al potere, se dipendesse solo da lei. È per questo che ha consegnato i miei figli al rogo. Le strapperò dal petto il cuore ancora pulsante, per vedere se brucia davvero.” La sua mano tastò l’elsa della lunga e raffinata daga lyseniana che il capitano della Danza di Shayala gli aveva regalato.

Il capitano era stato molto gentile con lui. Si chiamava Khorane Sathmantes, lyseniano come Salladhor Saan, il padrone della nave. I suoi occhi, di quell’azzurro pallido che spesso si vedeva a Lys, brillavano in un volto ossuto e segnato dagli elementi. Khorane aveva passato molti anni commerciando con i Sette Regni. Nel momento in cui aveva appreso che l’uomo strappato all’artiglio granitico in mezzo al mare era il celebrato cavaliere della cipolla, gli aveva dato l’uso della sua cabina, dei suoi abiti e di un paio di stivali nuovi che gli andavano quasi bene. Aveva anche insistito perché Davos condividesse il suo cibo, ma questo era andato meno bene. Il suo stomaco non era stato in grado di tollerare le lumache, le lamprede e gli altri ricchi manicaretti che Khorane apprezzava così tanto. Dopo il primo pasto consumato alla tavola del capitano, Davos aveva trascorso il resto della giornata con un orifizio o con l’altro fuori della murata.

A ogni nuova vogata, la Roccia del Drago si ingigantiva. Ormai Davos riusciva a distinguere, arroccata sulle pendici della montagna, la grande cittadella nera irta di contrafforti e di torri a forma di drago. Fendendo le onde, la polena di bronzo sulla prua della Danza di Shayala sollevava ali di spruzzi. Davos si riversò inerte sul parapetto della murata, grato di avere quell’appiglio. L’ordalia del naufragio lo aveva indebolito. Se rimaneva in piedi troppo a lungo, le gambe gli cominciavano a tremare. A volte, cadeva preda d’incontrollabili accessi di tosse i quali lo costringevano a espellere grumi di muco venato di sangue. “Non è niente” ripeté a se stesso. “Certamente gli dèi non mi hanno permesso di passare indenne sotto l’acqua e in mezzo al fuoco per poi uccidermi con la tosse.”

Rimase ad ascoltare le voci della nave: il martellare ritmico del tamburo del capo rematore, il rumore vibrante delle vele, lo scricchiolio dei remi. Con la memoria, Davos tornò ai giorni della sua giovinezza, quando quegli stessi suoni, in fin troppe mattine nebbiose, chiudevano il suo cuore nella morsa della paura. Erano gli araldi della corvetta di sorveglianza del vecchio ser Tristimun, che significava morte certa per i contrabbandieri nell’epoca in cui Aerys Targaryen, il re Folle, sedeva sul Trono di Spade.

“Ma questo è stato un abisso di tempo fa” pensò Davos. “Prima della nave delle cipolle, prima dell’assedio di Capo Tempesta, prima che Stannis mi mozzasse le dita. È stato prima della guerra e della cometa rossa, prima che io diventassi un Seaworth o un cavaliere. Ero un uomo diverso, in quei giorni, prima che lord Stannis mi elevasse di rango.”

Il capitano Khorane lo aveva informato della fine delle speranze di vittoria di Stannis, la notte in cui il fiume era andato a fuoco. I Lannister lo avevano attaccato dal fianco, e a centinaia i suoi alfieri lo avevano abbandonato proprio nel momento di massima necessità. «È perfino stato visto il fantasma di re Renly che abbatteva uomini a destra e a manca, alla testa dell’avanguardia del lord del leone» aveva detto il capitano di Lys. «Si racconta che la sua armatura verde assumesse chiarori spettrali alla luce dell’altofuoco, e che dalle coma del suo elmo divampassero fiamme dorate.»

Il fantasma di Renly. Davos si chiese se anche i suoi figli sarebbero tornati come fantasmi. Andando per mare, aveva visto troppe cose strane per affermare che i fantasmi non esistevano.

«E nessuno di quegli alfieri è rimasto fedele?» aveva chiesto Davos.

«Pochi» era stata la risposta di Khorane. «I parenti della regina Selyse, loro soprattutto. Ne abbiamo imbarcati tanti con l’emblema della volpe nel cerchio di fiori. Ma molti altri, con molti altri emblemi, sono rimasti a terra. Ora, alla Roccia del Drago, è lord Alester Florent il Primo Cavaliere del re.»

La montagna si era fatta ancora più incombente, la cima incoronata da fumo livido. La vela si gonfiò, il tamburo batté e i remi morsero l’acqua. Un attimo dopo, l’imboccatura del porto si aprì davanti a loro. “Così vuoto.” Davos ricordò com’era stato prima, con navi ormeggiate a ogni molo e altre navi alla fonda oltre la linea frangiflutti. Notò l’ammiraglia di Salladhor Saan, la Valyriana, ancorata allo stesso molo che aveva ospitato la Furia e le altre navi sorelle. Anche le navi ai lati della Valyriana, con i loro scafi dipinti a strisce, erano navi di Lys. Invano, lo sguardo di Davos andò alla ricerca della Lady Marya e della Fantasma.

Le vele vennero ammainate all’entrata in porto, e la Danza di Shayaìa procedette a remi verso l’attracco. Il capitano Khorane andò da Davos mentre stavano completando l’ormeggio. «Il mio principe desidera vederti immediatamente.»

Un altro accesso di tosse tagliò il fiato al cavaliere della cipolla, impedendogli di rispondere. Si aggrappò alla murata e sputò fuori bordo. «Il re» gorgogliò. «Devo andare dal re.» “Perché là dove troverò Stannis, troverò anche Melisandre.”

«Nessuno va dal re» replicò Khorane Sathmantes con fermezza. «Salladhor Saan ti spiegherà. Prima è da lui che andrai.»

Davos era troppo debole per opporsi. Poté solamente annuire.

Salladhor Saan non era a bordo della Valyriana. Lo trovarono a un altro molo, a circa un quarto di miglio di distanza, nella stiva di un grosso mercantile pentoshi chiamato Raccolto abbondante, intento a verificare il carico assieme a due eunuchi. Uno dei due reggeva una lanterna, l’altro una tavoletta di cera e uno stilo.

«Trentasette, trentotto, trentanove…» Il vecchio pirata di Lys stava contando quando Davos e Khorane scesero dalla botola.

Quel giorno, Salladhor Saan indossava una tunica color vinaccia e alti stivali decorati di pelle bianca opacizzata, con fibbie d’argento. Tolse il coperchio a un’ampolla, annusò, sternutì.

«Un macinato rozzo, e di seconda qualità, a quanto dichiara il mio naso» disse. «La bolla di carico parla di quarantatré ampolle. Le altre quattro dove sono finite? Questo sto pensando. Che cosa si credono, questi buzzurri di Pentos, che io non sappia contare?» Nel vedere Davos, s’interruppe di colpo. Poi, fissandolo riprese: «E adesso che cos’è a farmi bruciare gli occhi, pepe o lacrime? Non sarà forse il re delle cipolle qui in piedi di fronte a me? No, non può essere lui: il mio caro amico Davos è morto nel fiume che bruciava, tutti concordano su questo. Perché il suo spettro viene a tormentarmi?».

«Nessuno spettro, Salla.»

«Che altro, quindi? Mai il mio cavaliere della cipolla è stato tanto magro e pallido quanto lo sei tu.»

Salladhor Saan si fece strada tra le pile di ampolle piene di spezie e i rotoli di tessuti che riempivano l’ampio ventre del mercantile. Avvolse Davos in un abbraccio che quasi lo stritolò, lo baciò su entrambe le guance e una terza volta in fronte.

«Sei ancora caldo, cavaliere, e io sento il tuo cuore che fa tump-tump. Che sia proprio vero? Il mare ti ha inghiottito e poi ti ha risputato fuori.»

Nella memoria di Davos apparve Macchia, il giullare dalla mente incrinata della principessa Shireen. Anche lui era finito in fondo al mare, ma dopo esserne uscito, era diventato pazzo. “Che sia pazzo anch’io, adesso?” Tossì nella mano guantata.