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«Chi va là?»

Davos spinse la testa indietro e si portò le mani attorno alla bocca. «Ser Davos Seaworth, che desidera vedere sua maestà.»

«Cosa sei, ubriaco? Piantala di picchiare e vattene.»

Salladhor Saan lo aveva avvertito. Davos decise di cambiare tattica. «Allora manda a chiamare mio figlio Devan, lo scudiero del re.»

La guardia corrugò la fronte. «Chi hai detto che sei?»

«Davos» gridò lui in risposta. «Il cavaliere della cipolla.»

La testa scomparve,, per riapparire un momento dopo. «Ma levati dai piedi. Il cavaliere della cipolla è morto sul fiume. La sua nave è bruciata.»

«La sua nave è bruciata» concordò Davos. «Ma lui no, e adesso è qua sotto. Jate è ancora il comandante della Guardia?»

«Chi?»

«Jate Blackberry. Lui mi conosce.»

«Mai sentito nominare. Molto probabilmente è morto.»

«Allora lord Chyttering.»

«Lui lo conosco. È bruciato sulle Rapide nere.»

«Will Faccia d’uncino? Hal la Scrofa?»

«Morto uno, morto l’altro» rimandò il balestriere, ma adesso la sua espressione tradiva un dubbio improvviso. «Tu aspetta là.» Tornò a svanire.

Davos aspettò. “Morti, tutti morti” pensò cupamente. Gli tornò in mente il ventre bianco e prominente di Hal, una striscia di carne nuda sempre visibile sotto il bordo del suo farsetto sporco d’unto. E la lunga cicatrice che l’uncino da pesca aveva lasciato sulla faccia di Will, e il modo in cui il defunto Jate si portava immancabilmente la mano al berretto per salutare le donne, tutte le donne: di cinque anni o cinquanta, nobili o popolane, per lui non faceva nessuna differenza. “Annegati o bruciati, assieme ai miei figli e a migliaia di altri. Andati tutti a incoronare un re all’inferno.”

Improvvisamente, il balestriere tornò. «Gira intorno alle mura fino alla porta pedonale, ti faranno entrare.»

Davos fece come gli era stato detto. Le guardie che gli permisero di accedere erano uomini a lui sconosciuti. Armati di picca, avevano sul pettorale della tunica la volpe nel cerchio di fiori, emblema della Casa Florent. Ma non lo scortarono al Tamburo di pietra, come lui si era aspettato. Gli fecero superare l’arcata della Coda del drago e lo condussero fino al giardino di Aegon.

«Rimani ad aspettare qui» lo apostrofò il sergente.

«Sua maestà sa che sono tornato?» chiese Davos.

«Io sia dannato se lo so. Aspetta, ho detto.» Con questo se ne andò, portandosi dietro i suoi picchieri.

Un piacevole odore di pino pervadeva il giardino di Aegon e alti alberi scuri si ergevano su ogni lato. C’erano anche rose selvatiche, folte siepi spinose e una zona paludosa in cui crescevano more.

“Per quale motivo mi hanno condotto qui?” si domandò Davos.

Poi udì un debole tintinnare di campanelle e la risata di una bambina. All’improvviso, Macchia il giullare emerse dai cespugli, scappando via quanto più in fretta possibile, e dietro di lui la principessa Shireen correva all’inseguimento.

«Torna indietro!» gridò la ragazzina. «Macchia, torna qui subito!»

Il giullare vide Davos e si fermò con un sussulto. Le campanelle appese alle corna di cervo del suo berretto tintinnarono con allegria: ting-a-ling, ting-a-ling. Macchia si mise a saltellare da un piede all’altro.

«Sangue del giullare» cantò. «Sangue del re, sangue sulla coscia della vergine, ma catene per gli ospiti e catene per il promesso sposo, oh, oh, oh.»

Shireen stava per afferrarlo, ma, proprio all’ultimo momento, Macchia saltò al di là di una siepe di rovi e svanì tra gli alberi. La principessa continuò a corrergli dietro. Davos non poté fare a meno di sorridere.

Si girò per tossire nella mano guantata. Un’altra figura apparve dalle siepi e gli arrivò dritta addosso, gettandolo a terra.

Anche l’aggressore cadde a terra, ma fu di nuovo in piedi in un attimo. Era un ragazzo. «Che cosa ci fai qui?» chiese con durezza, togliendosi la polvere dagli abiti. Lunghi capelli neri come l’inchiostro gli ricadevano sul collo, i suoi occhi erano di un blu sfolgorante. «Non dovresti venirmi tra i piedi quando corro.»

«No» concordò Davos. «Non dovrei.» Un ennesimo accesso di tosse lo assalì mentre cercava di raddrizzarsi.

«Non ti senti bene?» Il ragazzo lo prese per un braccio e lo aiutò a mettersi in piedi. «Vuoi che chiami il maestro?»

«È solo un po’ di tosse.» Davos scosse il capo. «Passerà.»

Il ragazzo annuì senza insistere. «Stavamo giocando a mostri e fanciulle» spiegò. «Io ero il mostro. È un gioco infantile ma a mia cugina piace molto. Hai un nome?»

«Ser Davos Seaworth.»

«Ne sei sicuro?» Con aria dubbiosa, il ragazzo lo scrutò dalla testa ai piedi. «Non ce l’hai l’aria di un cavaliere.»

«Sono il cavaliere della cipolla, mio lord.»

Gli occhi blu del ragazzo ammiccarono. «Il capitano con la nave nera?»

«Tu conosci quella storia?»

«Prima che io nascessi, hai portato pesci da mangiare a mio zio Stannis, quando lord Tyrell lo cingeva d’assedio a Capo Tempesta.» Il ragazzo drizzò le spalle orgogliosamente. «Sono Edric Storm» annunciò «figlio di re Robert.»

«Ma certo!» Davos lo aveva intuito pressoché all’istante. Il ragazzo aveva le orecchie sporgenti dei Florent, ma tutto il resto — i capelli, gli occhi, la mandibola — erano quelli dei Baratheon.

«Conoscevi mio padre?» chiese Edric Storm.

«L’ho visto molte volte, andando a corte a incontrare tuo zio, ma non ci siamo mai parlati.»

«Mio padre mi ha insegnato a combattere» disse con orgoglio il ragazzo. «Veniva a vedermi quasi ogni anno, e a volte ci addestravamo assieme. Per il mio ultimo compleanno, mi ha mandato una mazza da guerra proprio come quella che usava lui, soltanto più piccola. Mi hanno imposto di lasciarla a Capo Tempesta, però. È vero che mio zio Stannis ti ha mozzato le dita?»

«Solo l’ultima falange. Le dita le ho ancora, appena un po’ più corte.»

«Fammi vedere.»

Davos si sfilò il guanto. Il ragazzo esaminò la sua mano con attenzione. «Il pollice non te lo ha accorciato?»

«No» tossì Davos. «Ha preferito lasciarlo com’era.»

«Non avrebbe dovuto tagliarti nessun dito» decise Edric. «È stata una cosa ingiusta.»

«Ero un contrabbandiere.»

«Sì, ma hai contrabbandato per lui pesci e cipolle.»

«Lord Stannis mi ha investito cavaliere per le cipolle, e mi ha accorciato le dita per il contrabbando.» Davos tornò a infilare il guanto.

«Mio padre non te le avrebbe tagliate, le dita.»

«Come tu dici, mio lord.»

“Ma Robert era un uomo diverso da Stannis, questo è vero. E il ragazzo è come lui. Già, e anche come Renly.” Il pensiero lo rese ansioso.

Edric stava per dire qualcosa quando entrambi udirono dei passi. Davos si voltò. Ser Axell Florent stava avanzando lungo uno dei sentieri del giardino, seguito da una dozzina di guardie con tuniche di cuoio. Sul pettorale portavano il cuore fiammeggiante, emblema del Signore della luce. “Uomini della regina” si rése conto Davos. La tosse tornò ad assalirlo.

Ser Axell era basso e muscoloso, il torace a botte, le braccia poderose e le gambe arcuate. Ciuffi di peli gli uscivano dalle orecchie. Zio della regina Selyse, da un decennio era castellano della Roccia del Drago. Consapevole che Davos godeva del favore di lord Stannis, lo aveva sempre trattato con cortesia. Ma nel tono della sua voce, non c’erano né cortesia né calore quando disse: «Ser Davos, non sei annegato? Com’è possibile?».