«C’è un posto che Varys preme, e il letto salta su. Gli ho chiesto come fa ma lui ha detto che è magia.»
«Ma sicuro» sogghignò Tyrion. «La magia dei contrappesi.»
«Meglio che vado.» Shae si alzò in piedi. «Certe volte il bambino scalcia e Lollys si sveglia e mi chiama.»
«Varys non tarderà. Probabilmente sta ascoltando ogni parola che diciamo.» Tyrion posò la candela. C’era una chiazza umida sul davanti delle sue brache, ma con il buio nessuno l’avrebbe notata. Disse a Shae di rivestirsi e di rimanere ad aspettare l’eunuco.
«Lo farò» promise lei. «Tu sei il mio leone, non è vero? Il mio gigante di Lannister…?»
«Lo sono» disse lui. «E tu sei…»
«…la tua puttana.» Shae gli pose un dito sulle labbra. «Lo so. Sarei la tua lady, ma non potrò mai diventarlo. Altrimenti tu mi portavi alla festa. Non importa. Mi piace fare la puttana per te, Tyrion. Solo, tienimi con te, mio leone, e tienimi al sicuro.»
«Lo farò» promise. “Idiota, idiota…!” urlava la voce dentro di lui. “Perché lo hai detto? Sei venuto qui per mandarla via!” Invece la baciò un’altra volta.
Il cammino di ritorno parve lungo e solitario. Podrick Payne dormiva nel suo giaciglio angusto ai piedi del letto di Tyrion. Lui lo svegliò ugualmente. «Bronn» gli disse.
«Ser Bronn?» Pod si strofinò gli occhi assonnati. «Oh, devo andarlo a chiamare, mio lord?»
«Perché no? Ti ho appunto svegliato per fare una chiacchierata sul suo modo di vestire.» Ma Tyrion sapeva che il suo sarcasmo era sprecato. Pod continuò a fissarlo senza capire. Alla fine, Tyrion alzò le braccia al cielo e disse: «Sì, va’ a chiamare Bronn. Va’ a prendere Bronn. Adesso».
Il ragazzo si vestì in fretta e furia e scappò fuori dalla stanza. “Sono davvero tanto spaventoso?” si chiese Tyrion. Poi indossò una vestaglia e si versò del vino.
Era alla terza coppa, e metà della notte se n’era andata, quando Pod fece finalmente ritorno, tirandosi dietro il cavaliere mercenario.
«Spero proprio che il ragazzo abbia una ragione dannatamente valida per tirarmi fuori da uno dei letti di Chataya» disse Bronn nel sedersi.
«Chataya…?» chiese Tyrion, irritato.
«È un fatto positivo essere cavaliere. Adesso non c’è più bisogno di cercare il bordello che costa meno giù lungo la strada.» Bronn sogghignò. «Adesso Alayaya e Marei stanno nello stesso letto di piume, con ser Bronn nel mezzo.»
Tyrion fu costretto a ingoiare l’irritazione. Bronn aveva lo steso diritto di chiunque altro di portare a letto Alayaya, eppure… “Io non l’ho mai nemmeno toccata, a dispetto di quanto la desiderassi.” Bronn non poteva saperlo, però.
Tyrion non osava fare visita al bordello di Chataya. Se lo avesse fatto, Cersei non ci avrebbe messo molto a farlo sapere al lord loro padre. E a ’Yaya questa volta sarebbe capitato qualcosa di ben peggiore di un incontro con la frusta. Per cercare di scusarsi, aveva fatto pervenire alla ragazza una collana e un paio di orecchini, il tutto d’argento e giada, ma al di là di quello…
“Pensarci qui e ora non ha senso.” «C’è un cantastorie che si fa chiamare Symon Lingua d’Argento» disse Tyrion con cautela, mettendo da parte il senso di colpa. «Suona per le figlie di lady Tanda, ogni tanto.»
«E allora?»
“Uccidilo” avrebbe potuto dire. Solo che quell’uomo non gli aveva fatto nulla. Aveva semplicemente cantato qualche canzone. “E riempito la testolina di Shae con visioni di colombe e di orsi danzanti.”
«Trovalo, Bronn» disse invece. «Trovalo tu, prima che lo faccia qualcun altro.»
ARYA
Stava raspando la terra nel campo di un uomo morto alla ricerca di verdure quando udì il canto.
Arya s’irrigidì, immobile come la pietra, rimanendo in ascolto, le tre carote rinsecchite che stringeva in pugno dimenticate di colpo. Pensò ai Guitti sanguinari, agli uomini di Roose Bolton. Un brivido di paura le corse giù per la schiena. “Non è giusto, non proprio quando abbiamo finalmente trovato il Tridente, non quando pensavamo di essere al sicuro.”
Solo che… perché i Guitti avrebbero voluto cantare?
La canzone arrivava dal fiume, da un qualche punto oltre una bassa altura a est. «Via, a Città del Gabbiano, a vedere la fanciulla, ehi-oh, ehi-oh…»
Arya si alzò in piedi, le carote che le penzolavano tra le dita. Sembrava che il cantante stesse avvicinandosi dalla strada lungo la riva. In piedi tra i cavoli, anche Frittella l’aveva udito, a giudicare dalla sua espressione. Gendry era andato a dormire all’ombra di una capanna bruciata, e probabilmente non aveva sentito niente.
«Ruberò un dolce bacio con la punta della mia spada, ehi-oh, ehi-oh.»
Oltre il lieve sottofondo della corrente, Arya credette di sentire anche lo strimpellare di un’arpa di legno.
«Hai sentito?» disse Frittella in un bisbiglio rauco, le braccia cariche di cavoli. «Viene qualcuno.»
«Va’ a svegliare Gendry» gli disse Arya. «Scuotilo solo per la spalla, non fare troppo rumore.» Era facile svegliare Gendry, a differenza di Frittella, al quale bisognava urlare e dare calci.
«Faremo l’amore e riposeremo all’ombra, ehi-oh, ehi-oh.» A ogni strofa, la canzone si faceva sempre più forte.
Frittella aprì le braccia. I cavoli finirono al suolo con un tonfo molle. «Dobbiamo nasconderci.»
Ma dove? La capanna bruciata e il suo orto abbandonato sorgevano a breve distanza dalla riva del Tridente. Alcuni salici crescevano lungo la sponda, ed erbe acquatiche costellavano le pozze fangose lì accanto, ma il resto del terreno circostante era pericolosamente allo scoperto. “Lo sapevo che non avrei mai dovuto uscire dai boschi” pensò Arya. Ma erano talmente affamati, e quell’orto era una tentazione talmente forte. Il pane e il formaggio che avevano rubato a Harrenhal erano finiti sei giorni prima, nel folto della foresta.
«Porta Gendry e i cavalli dietro la capanna» decise Arya.
Una porzione di uno dei muri era ancora in piedi. Era abbastanza, forse, da nascondere due ragazzi e tre cavalli. “Se i cavalli non nitriscono. E se quel cantante non viene a curiosare nell’orto.”
«E tu che fai?» chiese Frittella.
«Mi nascondo vicino a quell’albero. Probabilmente è da solo. Se mi dà noia, lo uccido. Ora va’!»
Frittella andò. Arya lasciò cadere le carote ed estrasse la spada, anch’essa rubata a Harrenhal, da sopra la spalla. Teneva il fodero di traverso sulla schiena. La spada lunga da combattimento era fatta per un uomo adulto, e a portarla alla cintola la punta continuava a sbattere contro il terreno. “E poi è anche troppo pesante.” Ogni volta che estraeva quella cosa grossa e goffa, sentiva la mancanza della sua preziosa Ago. Ma una spada rimaneva una spada: qualcosa con cui uccidere. E a lei tanto bastava.
A passi lievi, raggiunse il grande vecchio salice piangente che cresceva sulla curva della strada. Mise un ginocchio a terra, nell’erba e nel fango, nascondendosi dietro il velo dei rami cadenti. “Antichi dèi” invocò, mentre la voce del cantante si faceva sempre più vicina. “Dèi degli alberi, nascondetemi e fate che quell’uomo vada avanti.” Poi un cavallo nitrì e la canzone s’interruppe di colpo. “Ha sentito!” Arya lo sapeva. “Ma forse è da solo. E anche se non lo è, forse anche loro saranno tanto spaventati da noi quanto noi lo siamo da loro.”
«Hai sentito?» chiese una voce d’uomo. «C’è qualcosa dietro quel muro, direi.»
«Già» fece eco una seconda voce, più profonda. «Chi pensi che possa essere, arciere?»
“Sono in due, quindi.” Arya si morse il labbro. Da dov’era inginocchiata, con i rami del salice nel mezzo, non poteva vederli. Riusciva però a sentirli.