«Un orso.» Forse una terza voce. O era ancora la prima?
«Un mucchio di carne in un orso» disse la voce profonda. «E anche un mucchio di grasso, per l’autunno. Buono da mangiare, se lo cucini bene.»
«Potrebbe essere un lupo. O magari un leone.»
«Non fa differenza. Giusto?»
«Ne fa e non ne fa. Arciere, che intenzioni hai con tutte quelle frecce lì?»
«Ne butto un po’ al di là di quel muro. Chiunque c’è nascosto dietro uscirà bene in fretta, stai a vedere.»
«Ma che succede se è un uomo onesto? O una qualche povera donna con un bimbo piccolo al seno?»
«Un uomo onesto verrebbe fuori e ci mostrerebbe la sua faccia. Soltanto un fuorilegge s’infratta e si nasconde.»
«Già, è così. E allora dacci pure sotto con le tue frecce.»
Arya schizzò in piedi. «Fermo!» Mostrò loro la spada. Erano in tre, vide. “Soltanto tre.” Syrio Forel era stato in grado di combattere contro ben più di tre avversari. E dalla sua, lei aveva Gendry e Frittella, forse. “Ma loro sono ragazzi, mentre questi sono uomini.”
I tre, gli abiti sporchi e schizzati di fango dal cammino, viaggiavano a piedi. Individuò il cantante dall’arpa di legno che si cullava contro il petto, quasi come una madre culla un bambino. Era un uomo di bassa statura, sulla cinquantina, con una gran bocca, un naso a punta e capelli castani che andavano diradandosi. I suoi abiti verdi scoloriti erano aggiustati qua e là con vecchie toppe di cuoio. Attorno alla cintola aveva una serie di coltelli da lancio e sulla schiena portava un’ascia da guerra.
L’uomo accanto a lui lo passava di tutta la testa e sembrava un soldato. Al cinturone di cuoio borchiato erano appese una spada lunga e una daga. Sulla sua giubba erano cuciti filari di anelli d’acciaio sovrapposti gli uni agli altri. In testa portava un mezzo elmo di ferro nero a forma di cono. Aveva denti marci e una cespugliosa barba marrone. Ma era il suo mantello giallo con cappuccio ad attirare l’attenzione. Spesso e pesante, macchiato qua e là del verde dell’erba e del rosso del sangue, era una cappa talmente grande da far assomigliare l’uomo a un enorme uccello giallo.
L’ultimo dei tre era giovane e magro quanto il suo arco lungo, ma non altrettanto alto. Aveva i capelli rossi, il viso pieno di lentiggini, e indossava una tunica borchiata, stivali alti e guanti privi di dita. Sulla schiena aveva una faretra. L’impennaggio delle frecce era di piume d’oca. Ce n’erano sei conficcate nel terreno davanti a lui, a formare qualcosa di simile a una piccola palizzata.
I tre uomini guardarono Arya, in piedi in mezzo alla strada con la spada in pugno.
«Ragazzo» il cantante pizzicò distrattamente una delle corde dell’arpa «metti via quella spada, a meno che tu non voglia farti male. È troppo grossa per te, figliolo. E inoltre, Anguy è in grado di piantarti dentro tre frecce ben prima che tu possa sperare di raggiungerci.»
«Non lo farà, invece» disse Arya. «E io sono una ragazza.»
«Capisco.» Il cantastorie s’inchinò. «Chiedo venia.»
«Andate per la vostra strada. Continuate oltre questo posto, e tu continua a cantare, in modo che sappia dove siete. Andate via e lasciateci in pace. E io non vi uccìderò.»
«Non ci ucciderà.» L’arciere dal viso lentigginoso si fece una risata. «Hai sentito, Lem?»
«Ho sentito.» Lem era il soldato grande e grosso dalla voce profonda.
«Bambina» riprese il cantastorie «abbassa quella spada. Ti porteremo in un luogo sicuro e ti daremo del cibo da mettere nello stomaco. Ci solo lupi da queste parti, e anche leoni. E cose addirittura peggiori. Non sono luoghi in cui una ragazzina possa andarsene in giro da sola.»
«Non è da sola.»
Gendry apparve a cavallo da dietro la baracca in rovina, seguito da Frittella che tratteneva il cavallo di Arya. Con la maglia di ferro e la spada in pugno, Gendry sembrava un adulto, e pericoloso. Frittella invece sembrava Frittella e basta.
«Fate come dice lei» avvertì Gendry. «E lasciateci stare.»
«Due e tre» contò il cantastorie. «Tutti qua, siete? E anche i cavalli. Non male come cavalli. Dove li avete rubati?»
«Sono nostri.» Arya non staccò loro gli occhi di dosso. Con le sue chiacchiere, il cantastorie continuava a distrarla, ma il vero pericolo era l’arciere. “Se dovesse togliere una di quelle frecce da terra…”
«Perché non ci dite i vostri nomi, come fanno gli uomini onesti?» chiese il cantante.
«Io sono Frittella» disse immediatamente Frittella.
«Sì, e congratulazioni» l’altro sorrise. «Non lo s’incontra tutti i giorni un ragazzo dal nome tanto appetitoso. Mentre i tuoi amici com’è che si chiamano, Quarto di Montone e Pulcino?»
Dalla sella, Gendry fece la faccia feroce. «E perché devo dirti il mio nome? Il tuo non l’ho sentito, di nome.»
«Bene, quanto a questo, io sono Tom di Settecorrenti, ma mi chiamano Tom Settecorde, o Tom Sette. Il bestione dai denti marroni è Lem, più corto di Mantello di limone. È giallo, vedete, e Lem è un tipo acido. E il giovanotto qui accanto a me è Anguy, o Arciere, come lo chiamiamo noi.»
«E adesso» intervenne Lem, con quella sua voce possente che Arya aveva udito tra i rami del salice piangente «voi chi siete?»
Arya non aveva la minima intenzione di rivelare il suo nome così facilmente. «Pulcino, se preferisci» disse. «Non m’importa.»
«Un pulcino con una spada.» L’uomo grande e grosso rise. «Ecco qualcosa che non si vede spesso.»
«Io sono il Toro» disse Gendry, seguendo l’esempio di Arya. Lei non lo avrebbe di certo biasimato per preferire Toro a Quarto di Montone.
Tom Settecorde strimpellò la sua arpa. «Frittella, Pulcino e il Toro. Scappati dalle cucine di lord Bolton, non è così?»
«Come fai a saperlo?» domandò Arya, a disagio.
«Hai sul petto il suo emblema, piccolina.»
Per un istante, se n’era dimenticata. Sotto il mantello, indossava ancora il raffinato farsetto da paggio, con l’uomo scuoìato di Forte Terrore cucito sul petto. «Non chiamarmi piccolina!»
«Perché no?» disse Lem. «Piccola lo sei.»
«Sono più grande di com’ero. E non sono più una bambina.» I bambini non uccidono la gente. Lei lo aveva fatto.
«Questo lo vedo, Pulcino. Non siete bambini, nessuno di voi. Non se eravate di Bolton.»
«Non eravamo di Bolton.» Frittella non sapeva mai tenere chiusa la bocca. «Eravamo a Harrenhal prima che lui è arrivato, tutto lì.»
«Per cui sareste cuccioli di leone» chiese Tom. «È questa la storia?»
«Nemmeno. Non siamo di nessuno. E voi, di chi siete?»
«Uomini del re.» Fu l’arciere Anguy a rispondere.
Arya corrugò la fronte. «Quale re?» chiese.
«Re Robert Baratheon» dichiarò Lem, l’uomo con il mantello giallo.
«Quel vecchio ubriacone?» disse Gendry con astio. «È morto. Un qualche cinghiale lo ha ammazzato. Lo sanno tutti.»
«Sì, ragazzo» assentì Tom Settecorde. «Ed è una cosa davvero brutta.» Trasse dall’arpa una singola nota triste.
Ma Arya riteneva che non fossero affatto uomini del re. Così laceri e sporchi, sembravano dei fuorilegge. Non avevano nemmeno dei cavalli. Veri uomini del re ne avrebbero avuti, anche più di uno a testa.
«Cerchiamo Delta delle Acque» s’inserì Frittella, tutto volenteroso. «A quanti giorni di cavallo sta, lo sapete?»
Arya avrebbe voluto assassinarlo. «Tu sta’ zitto, se no quella stupida bocca te la riempio di sassi.»
«Delta delle Acque è molto lontano verso monte» disse Tom. «Molto lontano vuol dire molta fame. Forse non vi dispiacerebbe un pasto caldo prima di ripartire, o no? C’è una locanda non lontano da qui mandata avanti da certi amici nostri. Invece di combattere gli uni con gli altri, potremmo condividere un po’ di birra e un tozzo di pane.»