Connie Willis e Cynthia Felice
Terra Promessa
A Sheba e Gracie, per la loro cieca fedeltà, e a Laura perché ha fatto da ponte tra noi due.
CAPITOLO PRIMO
Non c’era nessuno ad aspettarla.
Delanna si fermò ai piedi della rampa della navetta, proteggendo gli occhi con una mano dall’intensa luce del sole che si rifletteva sulla striscia argentea della pista. All’estremità opposta, dove la pista scompariva nell’erba verdazzurra, scorse un tipico terminal da spazioporto e un edificio rettangolare di colore azzurro che doveva essere il magazzino, costruito da qualcuno decisamente a corto di immaginazione. Una strada in terra battuta attraversava in linea retta il paesaggio spoglio e privo di qualsiasi punto di riferimento, e conduceva alla fila di edifici, tutti di diverse e vivaci sfumature di colore, della città di Grassedge, apparentemente appollaiata sull’orlo dell’orizzonte. Delanna si scostò i capelli dal viso e si girò con le spalle al sole. Anche da quel lato non vide nulla, tranne un mare d’erba punteggiato da quelli che dovevano essere i campi irrigati delle fattorie; in lontananza, verso est, sorgevano le montagne, ma erano tanto distanti che Delanna non riuscì a scorgere neppure le loro cime, coperte di neve, che ricordava dalla sua infanzia.
«Non è venuto nessuno a prenderla?» le chiese il pilota della navetta quando scese dalla rampa.
«Sarebbe dovuto venire un vicino, ma forse mi sta aspettando al terminal.»
«Lo ritengo decisamente improbabile. Di solito i passeggeri usano il terminal per accamparvisi dentro fino a quando non li trasportiamo sulle navi.»
Delanna annuì: ricordava vagamente di essersi rannicchiata contro la madre in un sacco a pelo mentre attendevano che arrivasse la nave che l’avrebbe condotta su un altro pianeta dove sorgeva la scuola che doveva frequentare. La madre l’aveva accompagnata a bordo della navetta e solo quando il portello si era chiuso tra di loro, separandole, Delanna si era resa conto che sua madre non sarebbe andata con lei. Aveva pianto disperatamente per tutto il tempo che la navetta aveva impiegato per entrare in orbita e non si era calmata fino a quando qualcuno non le aveva offerto un gelato. Non ricordava molto altro, tranne di avere viaggiato in un solaris per quelli che le erano sembrati giorni e giorni, e di aver visto un incendio nella prateria, ma all’epoca aveva avuto solo cinque anni. Grassedge e le pianure da cui era circondata le sembravano solo vagamente familiari e il paesaggio era spoglio come sua madre lo aveva descritto nelle sue lettere. «Questo è un pianeta orribile,» le aveva scritto riferendosi a Keramos. «Spero che tu non debba tornare mai più qui.»
In effetti Delanna era tornata, ma si sarebbe trattenuta soltanto il tempo necessario per regolare la questione della proprietà della madre.
«Forse il mio vicino è accampato al terminal,» commentò Delanna in tono speranzoso rivolgendosi al pilota. «Non poteva certo sapere a che ora sarebbe arrivata la nave, vero?»
«Certo,» convenne il pilota. «Ma quando sono partito di qui all’alba, non ho visto nessuno accampato nel terminal.»
«Però sarà meglio che vada a dare un’occhiata in ogni caso.»
Il pilota scrollò le spalle con indifferenza e indicò l’edificio in ceramica verde, distante mezzo miglio, che sorgeva al limitare dello spazioporto. Anche così, Delanna distingueva meglio la lunga ombra proiettata dal terminal piuttosto che l’edificio stesso. «Segua la linea gialla.»
«Non mi starà mica dicendo che devo arrivarci a piedi?» gli chiese Delanna, rivolgendogli uno sguardo incredulo. Sapeva che anche i trasporti pubblici di Grassedge, la città più grande di Keramos, non erano neppure paragonabili a quelli di cui era dotata Gay Paree, la piccola città su Rebe Primo che ospitava l’Abbazia; inoltre sua madre l’aveva avvertita che Keramos era un pianeta primitivo, ma questo era addirittura ridicolo.
Il pilota di navetta scrollò di nuovo le spalle. «Gilby se n’è già andato a casa,» le spiegò. «Di solito è lui che si occupa dei passeggeri, quando ne abbiamo qualcuno, ma qualche volta non ce la fa ad andare oltre i bar della città.»
«Ma sicuramente ci sarà qualcun altro.»
Il pilota scosse la testa. «Ci siamo solo io e Gilby, fino a quando non giungerà l’epoca del raccolto autunnale delle coltivazioni destinate alla vendita,» spiegò, poi aggiunse in tono pensieroso, «Per quelli che le coltivano.»
«E lei?»
«Noi tentiamo di accontentare i passeggeri,» rispose il pilota con un tono che Delanna non trovò per nulla convincente, «ma devo scaricare la navetta prima che faccia buio. Le casse funzionano a energia solare e, come può vedere chiaramente anche lei, è quasi il tramonto.»
Delanna fissò l’enorme palla dorata all’orizzonte, sentendosi, sia pure per solo un istante, spaesata e triste come si era sentita quando era scesa per la prima volta su Rebe Primo: una bambina di cinque anni appena arrivata in una strana scuola situata in una strana città su un pianeta ancora più strano. Allora, come adesso, era stata completamente sola: i suoi amici erano rimasti a Gay Paree e ormai erano quasi dieci mesi che sua madre riposava in una tomba, da qualche parte nelle vicinanze di Milleflores Lanzye. Ma adesso lei non era più una bambina. Respirò a fondo.
«Non posso certo camminare con queste,» affermò, indicando le scarpe con i tacchi alti e ornate di un fiocco. Senza dubbio il pilota non poteva non rendersi conto che per lei camminare a lungo era assolutamente impossibile.
«Be’, immagino che se non le dispiace viaggiare su una cassa, potrei portarla fino al magazzino merci.»
Delanna osservò con attenzione la cassa, poi finalmente annuì: qualsiasi mezzo di trasporto sarebbe stato meglio di camminare.
Il pilota si chinò sotto la tozza ala della navetta e si avvicinò al portellone della stiva. Delanna lo osservò tirare una leva e poi scostarsi mentre la prima cassa scendeva lungo la rampa. Come tutte le altre casse, era sigillata, ma era dotata di serbatoi d’ossigeno e un cartello scritto a mano avvertiva, «Bestiame! Proteggere da sbalzi di temperatura estremi.» Udì uno starnazzare sommesso. Fantastico: avrebbe dovuto viaggiare su una cassa di oche, ma a Gay Paree aveva diviso i taxi con compagni di viaggio ancora più strani e alcuni di loro avevano avuto voci molto simili.
Si appollaiò sulla cassa metallica e strinse saldamente il portadocumenti da viaggio e la sacca mentre il pilota camminava a fianco della cassa, filoguidandola. Quando la cassa abbandonò la pista, il viaggio divenne alquanto disagevole e Delanna fu costretta a reggersi al gancio per la gru al centro della cassa.
Chiuse gli occhi per difendersi dai raggi del sole e si appoggiò al gancio. La luce del sole splendeva calda sul suo volto, nell’aria aleggiava un meraviglioso profumo di terra e di erba falciata di fresco. Ebbe l’impressione che apprezzarlo la rendesse quasi una traditrice: sua madre aveva odiato qualsiasi cosa avesse a che fare con Keramos; più di ogni altra cosa avrebbe voluto fuggire dal pianeta, ma non ci era riuscita. Lo odierei anch’io, se fossi bloccata qui, pensò Delanna, ma in quel momento l’aria fresca, il calore e gli ampi spazi le sembravano assolutamente meravigliosi, dopo il lungo viaggio nella nave angusta e dall’atmosfera stantia.
Improvvisamente il sole scomparve e Delanna aprì gli occhi. Il pilota aveva guidato la cassa nell’ombra del magazzino, le cui pareti esterne erano ricoperte di mattonelle di ceramica azzurre; era così buio che in un primo momento Delanna non si accorse del varco, ancora più buio, di un portello per le merci aperto. Poi due uomini uscirono dall’ombra e la salutarono.
Delanna ricambiò il saluto. «Forse è uno di loro,» mormorò in tono ansioso. Uno degli uomini era anziano — aveva i capelli bianchi — indossava una camicia a fiori dai colori vivaci e aveva una pancia che sporgeva oltre la cintura dei pantaloni. L’altro era un, uomo attraente con i capelli neri. Delanna ricordò che, quando aveva avuto dieci o undici anni, il ragazzo dei Tanner aveva avuto i capelli biondi. Ma adesso doveva essere cresciuto e, forse, i suoi capelli si erano scuriti.