Il dottor Young fece qualche altro passo con estrema cautela. «Secondo me sta esagerando. Hanno fatto più di 600 sul test. Non scapperanno con nessuno. Andrew se ne tornerà al monastero e Carolyn tornerà da suo marito.»
«E tutto il rancore, la sfiducia e il desiderio che si sono accumulati nel frattempo? E tutta quella nostalgia del passato?»
«La utilizzerò nei miei esperimenti di dislocazione temporale,» rispose il dottor Young.
«Col cavolo che lo farà.»
Il dottor Young si lanciò sull’oscillatore temporale e lo afferrò prima che lei premesse l’interruttore. «Non potevo permetterle di spegnerlo,» fece lui. «Lei non si rende conto degli effetti che produrrebbe un improvviso rilascio di tutta questa energia temporale.»
«Troppo tardi,» replicò lei. «Già l’ho fatto.»
Linda telefonò poco dopo che Don fu partito per il meeting statale. «Mi chiedevo se non potrebbe servire una borsa da viaggio. A sentire le previsioni del tempo, sembra che dovremo pernottare qui. Gira ancora la varicella da voi?»
«Sì,» disse Carolyn, «le possibilità di contagio sono ancora alte, per cui sarebbe meglio se non ti avvicinassi troppo a Don. Non ha mai avuto la varicella, e sarebbe terribile se ve la prendeste anche tu e tutte le ragazzine del corso.»
Dopo aver riattaccato, andò a controllare gli ammalati. Liz si era addormentata sul divano con un opuscolo in mano della Texas A M. Susy Hopkins era nel letto matrimoniale. Sua madre aveva chiamato per farle sapere che aveva il turno tardi al lavoro per via di tutti i casi varicella nel reparto pediatria. Wendy non era ancora entrata nella fase critica. Aveva la pelle arrossata.
Carolyn appoggiò la mano sulla fronte di Wendy, aspettandosela calda al tatto, e invece era fredda. Si tastò la fronte. Era calda, anche troppo. Dopo tutto credo di non aver mai avuto la varicella, pensò. Però l’aveva avuta. Al college. In tutto il dormitorio, era stata l’unica a prendersela, e il dottore non era riuscito a spiegarsi come avesse fatto.
Rimboccò le coperte a Wendy. C’era un plaid ai piedi del letto. Lo portò nella stanza di Liz e se lo avvolse intorno sdraiandosi sul letto.
Era stata dieci giorni in ospedale, e il dottore le aveva fatto compilare una lista dei possibili contagiati, e aveva fatto il nome di Don perché le stava seduto vicino alla lezione di psicologia, e così si erano incontrati.
Tremava moltissimo, rannicchiata sotto il minuscolo plaid. Le faceva male la gola. Mi sono proprio presa la varicella, pensò. Solo che è impossibile. L’ho avuta nell’autunno del secondo anno di college. Il semestre in cui Allison era in Europa. Adesso mi ricordo. Si mise la mano sulla guancia bollente e si addormentò.
Si spensero le luci, e non vide più nulla. Lui fece un passo avanti e urtò contro qualcosa. Un cestino. Non si ricordava che ci fosse stato alcun cestino vicino al bar. Tentò di rimetterlo a posto e sbatté il ginocchio contro qualcos’altro. Una sedia. Non c’erano nemmeno sedie nel bar. Tantomeno sgabelli. Lui e il capo valletto di Stephanie Forrester avevano dovuto starsene appoggiati al bancone per bersi i loro fermatempo. Doveva essere già tornato in stanza.
«Chi è là?», disse una voce femminile. «C’è qualcuno?»
Non era la sua stanza. Fece un passo indietro e rovesciò di nuovo il cestino.
«Lo so che c’è qualcuno,» disse la voce, con tono spaventato. Sentì qualcosa che cadeva in terra, dopodiché o lei spalancò le tende o tirò su l’avvolgibile della finestra, perché improvvisamente lui la poté distinguere alla pallida luce di un lampione stradale.
Stava seduta sul letto ancora intatto, avvolta in una coperta. Accanto a lei, sul letto, c’era un libro aperto. Doveva essersi addormentata mentre leggeva. C’era una sveglia sul comodino. Segnava le tre e mezzo. La lampada che aveva tentato di accendere si era rovesciata in terra. Lui fece per raccoglierla.
«Non ti avvicinare!» sussultò la ragazza, arretrando fino in cima al letto, ancora con la coperta appiccicata addosso. «Come hai fatto a entrare?»
«Non lo so,» rispose. Si guardò intorno. La porta era incatenata. La finestra. Forse aveva scavalcato la finestra e se l’era chiusa dietro. Nevicava. I fiocchi turbinavano intorno al lampione, e poteva vederli accumularsi sul davanzale. «Non lo so,» disse con l’aria spersa.
La ragazza guardò la finestra e la porta incatenata. «Sei un amico di Allison?» chiese.
«No.» Stephanie Forrester. Aveva fatto da valletto al matrimonio di Stephanie Forrester e… «Sei un’amica di Stephanie?»
«No,» fece lei. «Hai bevuto?»
Ecco come stavano le cose. Aveva bevuto. Questo avrebbe risolto tutta una serie di problemi, ad esempio il fatto che non si ricordasse cosa ci faceva nella stanza di questa strana ragazza nel bel mezzo della notte. «Ho bevuto,» disse, e all’improvviso gli tornò tutto in mente. «Stavo bevendo dei fermatempo con il capo valletto di Stephanie. Birra e vino. Mescolati insieme.»
«Allora tutto si spiega,» commentò lei, ormai abbastanza tranquillizzata. Aveva allentato un po’ la presa sulla coperta, e lui riuscì a distinguere la maglietta marrone che le copriva a malapena i fianchi. Nebraska State College, dicevano le lettere in giallo sulla maglietta. Cercò di non preoccuparsene. Lo stesso fece per la neve.
C’era una semplice spiegazione a tutto ciò. Aveva cominciato a nevicare quando lui era al bar con il capo valletto. A volte nevicava in California. La maglietta le era stata regalata dal suo ragazzo del Nebraska.
«Ce l’hai il ragazzo?» le chiese, e se ne pentì all’istante. Lei si guardò selvaggiamente intorno alla ricerca di qualcosa con cui difendersi. «La maglietta,» aggiunse in fretta e furia. «Pensavo che magari te l’avesse regalata il tuo ragazzo, visto che non è di questa scuola.»
«È di questa scuola,» ribatté lei. «Nebraska State College.»
«Nebraska?» disse. Si appoggiò allo schienale della sedia e per poco non la rovesciò un’altra volta.
«Dov’è che stavi bevendo questi fermatempo di preciso?» chiese la ragazza.
«In California.»
Entrambi rimasero in silenzio per un po’. A un certo punto lei chiese: «Non ti ricordi come hai fatto ad arrivare qui?»
«Sì,» rispose. «Io stavo… no.»
«Ti vena in mente se non ci pensi,» disse la ragazza, e poi sembrò spaventata. «Mi sembra di averlo già detto prima, o di averlo sentito dire da qualcuno. Solo che ho questa strana impressione che non sia ancora accaduto.»
Si fece avanti, appoggiandosi sulle mani, e lo guardò negli occhi. «Io ti conosco,» disse. «Sei uno psicologo temporale.»
«Sono uno studente di lettere,» replicò lui. «Me ne stavo a bere un fermatempo con il capo valletto di Stephanie Forrester, e tutto a tratto si è fatto buio come…»
«Un pozzo da polo a polo,» terminò la ragazza.
Rovesciò la sedia. «Io ti conosco,» disse. «Sei Carolyn Hendricks.»
Scosse la testa. «Sono Carolyn Rutherford.»
«Quello è il tuo cognome da signorina. Quello da sposata è Hendricks.»
«Non sono sposata,» disse lei, di nuovo impaurita.
«Non ancora. Ma lo sarai. Avrai due figlie.»
«Tu sei il dottor Andrew Simons,» fece lei all’improvviso. «Hai passato gli ultimi cinque anni in Tibet a studiare il deja vu.»
«Ho passato gli ultimi cinque anni fra la scuola superiore e Stanford. E perché dovrei studiare il deja vu? Sono uno studente di lettere.»
«Eri uno studente di lettere. Penso che da stanotte ti trasferirai probabilmente a psicologia.» Si rimise a sedere sui talloni. «Hendricks, eh? Mi sa che c’è uno di nome Hendricks a lezione di psicologia.»
«Ma ancora non l’hai incontrato,» disse lui, non più disorientato né a disagio. «E nemmeno io ti ho ancora incontrata. Ma lo farò. Fra circa vent’anni.»