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— Io tornavo sempre indietro nel mio passato — disse Cirocco. — Ed era tutto così chiaro. Come se stessi rivivendo quegli avvenimenti.

— È successo anche a me. Però non erano avvenimenti già successi. Era tutto nuovo.

— Tu ricordavi sempre la tua identità? Per me è stata la cosa peggiore: ricordare, e poi dimenticare. Mi è successo non so quante volte.

— Sì — rispose Gaby — io sapevo sempre chi ero. Ma ho fatto presto a stancarmi di essere me stessa, non so se mi spiego. Le possibilità erano così limitate.

— Cosa vorresti dire?

Gaby mosse la mani in modo indeciso, come se volesse afferrare qualcosa che solo lei vedeva. Alzò gli occhi e, stringendosi fra le braccia di Cirocco, la guardò intensamente. Poi si accoccolò fra i suoi seni. La cosa la turbò stranamente, ma il calore dei loro corpi e della loro vicinanza era troppo stupendo per rinunciarvi. Guardò la testa calva di Gaby, e dovette farsi violenza per non chinarsi a baciarla.

— Sono rimasta là dentro per venti o trent’anni. E non metterti a dirmi che è impossibile. Lo so benissimo che nel resto dell’universo non è trascorso lo stesso tempo. Non sono pazza.

— Non ho detto che lo sei. — Cirocco la strinse un poco quando s’accorse che Gaby cominciava a tremare, e la calmò.

— Oh, non lo so. Forse sono pazza. Non ho mai avuto bisogno di qualcuno che mi cullasse per non farmi piangere. Mi dispiace.

— Non preoccuparti — mormorò Cirocco. Era così facile sussurrare frasi rassicuranti all’orecchio di Gaby. — Non potevamo venirne fuori senza risentirne. Io ho pianto per ore. Ho vomitato. Se dovesse succedermi di nuovo, ti prego, prenditi cura di me.

— Certo. — Gaby parve rilassarsi.

— Il tempo oggettivo non ha importanza — aggiunse, dopo un po’. — Conta solo il tempo interiore. E stando al mio orologio interiore, io sono rimasta là dentro per molti anni. Sono salita in paradiso su una scala di vetro, e ricordo perfettamente ogni scalino, rivedo le nuvole che mi sfioravano, risento i miei piedi che strusciavano sul vetro. E sembrava un paradiso di Hollywood, coi tappeti rossi negli ultimi tre o quattro chilometri, cancelli d’oro alti come grattacieli, gente con le ali. Cerca di capirmi, ci credevo e non ci credevo. Sapevo di sognare, sapevo che era ridicolo, e alla fine non ne ho voluto più sapere ed è scomparso tutto.

Sbadigliò, rise tra sé e sé.

— Ma perché poi t’ho raccontato tutto questo?

— Forse per liberartene. Adesso ti senti meglio?

— Abbastanza.

Gaby restò in silenzio per un po’, immobile, e Cirocco pensò che si fosse addormentata. Ma non era vero. Si mosse, affondò ancora di più nel suo abbraccio.

— Ho avuto il tempo di pensare a me stessa — disse, mezza assopita. — Non mi sono piaciuta. E per la prima volta mi sono chiesta cosa intendo combinare della mia vita.

— Perché tanti problemi? Tu mi piacevi.

— Davvero? E come mai? Sì, non davo grane, ero autosufficiente. Ma poi? Cosa c’era di buono in me?

— Facevi benissimo il tuo lavoro. A me non interessava altro. È per questo che ti hanno scelto per il viaggio, perché eri la migliore.

Gaby sospirò. — È troppo poco. Per diventare così brava nel mio lavoro ho sacrificato tutta la mia umanità. Mi sono scrutata a fondo, sul serio.

— E cosa hai deciso?

— Per prima cosa, basta con l’astronomia. Giuro. Tanto, cosa importa? Non ce ne andremo mai di qui, e qui non ci sono le stelle da studiare. Comunque non è stata una decisione improvvisa. Ho avuto tanto, tanto tempo per pensarci. Lo sai che non ho nemmeno un amante o un amico?

— Io ti sono amica.

— No, non nel senso che intendo io. La gente mi rispettava perché sapevo lavorare, gli uomini mi desideravano per il mio corpo. Ma non mi sono mai fatta un amico, nemmeno da bambina. Un amico vero, a cui aprire il cuore.

— Non è difficile.

— Lo spero. Perché voglio essere un’altra persona. Voglio parlare di me agli altri. Adesso posso farlo, perché mi conosco a fondo. E voglio amare, prendermi cura degli altri. E tu sei tu. — Alzò la testa e sorrise a Cirocco.

— Cosa vuoi dire?

— È una sensazione buffa, ma l’ho capito appena ti ho vista. Credo di amarti.

Cirocco non riuscì a dire niente per qualche minuto, poi uscì in una risata forzata. — Ehi, tesoro, tu sei ancora in quel paradiso alla Hollywood. Non esiste l’amore a prima vista. Ci vuole tempo. Gaby?

Ma Gaby dormiva, oppure fingeva benissimo di dormire.

— Oh, mio Dio — mormorò Cirocco.

6

Avrebbero dovuto stabilire turni di guardia. Chissà perché si comportava come un’idiota, da quando era arrivata su Temi. Doveva abituarsi a quella bizzarra mancanza di suddivisioni orarie. Non potevano continuare a camminare finché non crollavano dal sonno.

Gaby dormiva col pollice in bocca. Cirocco cercò di alzarsi senza svegliarla, ma fu impossibile.

Gaby aprì gli occhi e borbottò qualcosa.

— Hai fame anche tu? — chiese. — Forse le bacche non sono nutrienti.

— Impossibile dirlo, per ora. Ma guarda lì. Potrebbe essere la nostra colazione.

Gaby seguì con gli occhi l’indice di Cirocco. Un animale si stava abbeverando al torrente. In quel momento alzò la testa, le guardò da non più di venti metri di distanza. Cirocco era pronta a tutto. L’animale socchiuse gli occhi e riabbassò la testa.

— Un canguro a sei zampe — disse Gaby. — E senza orecchie.

L’animale era coperto da una peluria corta. Le due zampe posteriori erano abbastanza grandi, anche se non come quelle di un canguro. Le quattro zampe anteriori erano più piccole. Il pelo era color verde acceso e giallo. Non sembrava allarmato o sulla difensiva.

— Sarebbe meglio vedere che dentatura ha. Ci darebbe qualche utile informazione.

— Forse la cosa migliore è catturarlo — disse Gaby. Con un sospiro, si incamminò verso l’animale prima che Cirocco potesse fermarla.

— Gaby, fermati — sussurrò Cirocco, cercando di non mettere in allarme l’animale. In quel momento s’accorse che Gaby aveva in mano una pietra.

La creatura alzò di nuovo la testa. Il suo muso sarebbe sembrato molto buffo, in altre circostanze. La testa era rotonda, senza orecchie e senza naso; gli occhi erano dolci, enormi. In quanto alla bocca, sembrava che stesse suonando un’armonica; era larga il doppio della testa, persa in un sorriso folle.

Con uno scatto delle quattro zampe posteriori, si alzò in aria di tre metri. Gaby, sbalordita, cadde a sedere per terra. Cirocco la raggiunge, cercò di toglierle di mano la pietra.

— Andiamo, Gaby. Non ne abbiamo un bisogno così disperato.

— Stai calma — rispose Gaby a denti stretti. — Lo sto facendo anche per te. — Si liberò dalla stretta di Cirocco e corse avanti.

Con altri due salti, l’animale si era spostato di una ventina di metri. Ora, brucava tranquillamente l’erba a testa bassa.

Alzò placidamente gli occhi quando Gaby si fermò a due metri da lui. Non doveva avere paura. Si rimise a brucare.

Gaby esitò solo un attimo. Balzò sull’animale, alzò il braccio, lo colpì alla testa con la pietra e si tirò indietro.

La bestia tossì, rabbrividì, cadde di fianco, restò immobile. Non successe più niente.

Gaby gli si avvicinò, lo scosse con un piede. Non successe nulla, così lei gli si inginocchiò accanto. Non era più grande di un daino. Cirocco si sentiva vagamente disgustata, Gaby era senza fiato.

— Pensi che sia morto?

— Direi di sì. Però dovremo accertarcene.

— Per me va bene.

Gaby si passò una mano sulla fronte, poi colpì di nuovo la testa della creatura con la pietra, finché non ne uscì un sangue rosso. Cirocco rabbrividì. Gaby si pulì le mani sulle cosce.

— Se vai a prendere un po’ di quei pezzi di legna, dovrei riuscire ad accendere un fuoco.