L’apertura era larga duecento metri, fiancheggiata da colonne di cristallo che dovevano essere l’estremità superiore dei cavi. Alzò gli occhi. I cavi s’intrecciavano fra loro, per poi riunirsi in un enorme cesto che occupava il tetto gigantesco, lontano. Era quella l’ancora, incredibilmente forte, che teneva unita Gea.
Poi, guardando con più attenzione, scoprì che diversi cavi erano spezzati.
Questo la fece sentire meglio. Per quanto Gea fosse grande, aveva conosciuto giorni migliori.
Salirono sull’ultima rampa di scalini. Cominciò a emettere una nota bassa che si protrasse mentre salivano. Il settimo gradino raggiunse l’altezza di un semitono, il tredicesimo lo trasformò in un diesis. Procedevano lentamente lungo la scala cromatica e quando raggiunsero la prima ottava s’insinuò finalmente la prima armonica.
E all’improvviso, attorno a loro si alzarono fiamme arancioni. Gaby e Cirocco volarono letteralmente due metri in aria, prima che la scarsa gravità le riportasse giù.
Cirocco, fortunatamente, sentì di nuovo montare dentro di sé la collera. Era un buon trucco, ben concepito; ma su di lei ebbe un effetto negativo. Dea o non dea, era un effettaccio da baraccone, studiato per piegare animi già deboli. Gea non aveva niente da invidiare ai buffoni che leggono il futuro sulla mano.
— Sembra uno spettacolo da circo equestre — disse Gaby, e Cirocco ne fu immensamente felice. Una dea non avrebbe avuto bisogno di tutto quell’apparato.
Le fiamme si alzarono due volte, poi scomparvero. Gaby e Cirocco proseguirono.
Davanti a loro apparvero immensi cancelli di rame e d’oro, che si spalancarono e si richiusero senza il minimo rumore.
La musica raggiunse apici folli, mentre si avvicinavano a un grande trono circonfuso di luce. Quando arrivarono alla grande piattaforma di marmo ai piedi della scala, era impossibile guardare il trono. Il caldo era insopportabile.
— Parla.
Quella parola venne pronunciata nei toni cupi che avevano udito fuori, ma in maniera più umana. La luce si abbassò. Cirocco, con una serie di occhiate guardinghe, intravvide fra i bagliori una figura umana, alta e grande.
— Parla, oppure torna indietro.
Cirocco socchiuse gli occhi. Vide una testa tondeggiante posata su un collo sottile, occhi che brillavano come giaietto, labbra sottili. Gea era alta quattro metri, ritta immobile su un piedistallo di due metri davanti al trono. Il suo corpo possedeva un ventre mostruoso, seni enormi, braccia e gambe che avrebbero impressionato un lottatore professionista. Era nuda, color verde oliva.
Il piedistallo cambiò improvvisamente forma, diventò una collina verdeggiante coperta di fiori. Le gambe di Gea divennero tronchi d’albero, i suoi piedi radici che affondavano nella terra scura. Animali di ogni tipo le saltavano attorno mentre creature alate volteggiavano attorno alla sua testa. Fissò Cirocco, e la sua espressione non era più molto amichevole.
— Sì… Sì, certo, parlerò. — Aprì la bocca per dire qualcosa, si chiese dove fosse andata a finire tutta la sua collera; poi lanciò un’occhiata a Gaby. Gaby tremava, fissava Gea a occhi spalancati.
— Sono già stata qui — sussurrava. — Ci sono già stata.
— Zitta — sibilò Cirocco, dandole un colpo col gomito. — Ne parleremo dopo. — Si asciugò il sudore dalla fronte e tornò a fissare Gea.
— O grande… — No. Aprile le aveva detto di non chiedere, di non implorare. Doveva essere un eroe. Pregò che Aprile non si sbagliasse.
— Siamo giunti… Ecco, io e sei altri siamo giunti… dal pianeta Terra, che è molto… A dire il vero non so quanto… — S’interruppe. Con l’inglese non avrebbe concluso niente. Tirò un respiro e cominciò a cantare.
— Siamo giunti in pace, non so quanto tempo fa. Eravamo poche persone, dal tuo punto di vista, e certo non costituivamo una minaccia. Eravamo disarmati. Eppure tu ci hai attaccati. Hai distrutto la nostra nave prima che potessimo darti una spiegazione. Siamo rimasti confinati contro la nostra volontà, incapaci di comunicare fra noi e coi nostri compagni sulla Terra, e la nostra mente ne ha sofferto. Siamo stati cambiati. Uno dei miei uomini è impazzito. Un altro, una donna, era prossimo alla follia quando l’ho lasciato. Un terzo non desiderava più la compagnia di altri esseri umani, e un quarto ha perso gran parte della sua memoria. Un altro ancora, un’altra donna, è mutato oltre ogni limite; non riconosce più la propria sorella, che un tempo amava. Per noi queste cose sono mostruose. Ritengo che tu ci abbia ingannati e ci debba una spiegazione, perché noi vogliamo giustizia.
Era contenta di aver detto tutte quelle cose, anche se non aveva idea di cosa potesse succedere. Certo non s’illudeva più di poter combattere quell’essere.
Gea divenne ancora più cupa.
— Io non sono una firmataria degli accordi di Ginevra.
Cirocco spalancò la bocca. Non sapeva che risposta si era aspettata, ma non certo quella.
— E allora cosa sei? — disse prima di aver potuto pensare.
— Sono Gea, la grande e la saggia. Sono il mondo, sono la verità, sono la legge, sono…
— Sei davvero questo pianeta? Aprile diceva la verità?
Forse non era saggio interrompere una dea, ma Cirocco, ormai non conosceva più limiti.
— Non del tutto — brontolò Gea. — Comunque sì, è vero: io sono la Madre Terra, anche se non appartengo al vostro pianeta. Ogni forma di vita nasce da me. Io appartengo a un panteon che si estende sino alle stelle. Diciamo che sono un Titano.
— Allora sei stata tu a…
— Basta. Io ascolto solo gli eroi. Tu hai parlato di grandi gesta, intonando i tuoi canti. Raccontamele ora, oppure vattene per sempre. Cantami le tue avventure.
— Ma…
— Canta! — tuonò Gea.
E lei cantò. Ci vollero diverse ore. Cirocco tendeva a condensare, ma Gea insisteva sui particolari. Cirocco cominciò a eccitarsi nel raccontare. Il linguaggio dei titanidi era meravigliosamente adatto. Quando ebbe finito, si sentì più fiera di sé, un po’ più sicura.
Gea sembrò meditare sul suo canto. Cirocco saltellava nervosamente da un piede all’altro.
Alla fine, Gea parlò.
— Un buon racconto, come non ne ascolto da molto tempo. Davvero eroico. Parlerò con voi due nelle mie stanze.
Svanì, in un guizzo di fiamme che durò pochi minuti.
Loro si guardarono attorno. Erano in una grande stanza a volta. La scala, buia, scendeva verso l’interno del mozzo. Nell’aria c’era odore di gomma bruciata.
Il pavimento di marmo era crepato e scolorito, coperto da uno strato di polvere su cui le loro impronte spiccavano nettissime. Quel posto sembrava un teatro in rovina, spogliato di tutti gli orpelli.
— Ho visto cose molto strane da quando siamo qui — disse Gaby — ma questo è il massimo. Adesso dove si va?
Cirocco le indicò una porticina nella parete alla loro sinistra. Era socchiusa e dallo spiraglio filtrava un filo di luce.
Cirocco la spalancò, entrò. Le pareva di riconoscere l’ambiente.
Erano in una grande stanza, col soffitto alto quattro metri. Il pavimento era composto di rettangoli di vetro bianchi. Dal basso saliva luce. Le pareti avevano pannelli di legno beige e recavano appesi dipinti a olio. I mobili erano in stile Luigi XVI.
— Déjà vu, eh? — disse una voce dall’altro lato della stanza. Era una donna piccola, grassoccia, avvolta in un vestito di tela di sacco. Sembrava la brutta copia di Gea.
— Sedetevi, sedetevi — aggiunse allegramente. — Qui non facciamo cerimonie. La facciata di rappresentanza l’avete già vista; questa è l’amara realtà. Posso offrirvi qualcosa?
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Cirocco aveva smesso di formulare opinioni.