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— Ha fat-to smet-te-re le due creatu-re? Ne fa-rà smet-te-re anco-ra?

Walter aprì la bocca per rispondere, poi tornò a chiuderla. Qualcosa nella voce dello zan indicava che avrebbe dovuto esserci una ruga di preoccupazione sulla sua faccia, se avesse avuto una faccia riconoscibile come tale.

— Cosa ne diresti di portarmi quegli animali che non vogliono svegliarsi? — chiese Walter. — È contro le regole?

— Vie-ni, — disse lo zan.

Questo era accaduto il pomeriggio del secondo giorno. Il mattino seguente gli zan tornarono, in parecchi. Cominciarono a traslocare i libri e i mobili di Walter Phelan. Quand’ebbero finito, traslocarono anche lui. Si trovò in una stanza assai più grande, a un centinaio di metri da lì.

Walter Phelan si sedette e aspettò e anche stavolta, quando bussarono alla porta, seppe cosa stava arrivando, e si alzò cortesemente in piedi. Uno zan aprì la porta e si fece da parte. Entrò una donna.

Walter eseguì un leggero inchino. — Walter Phelan — disse, — nel caso in cui George non le abbia detto il mio nome. George cerca di essere cortese, ma non conosce tutte le nostre buone maniere.

La donna appariva calma; Walter fu lieto di notarlo. E gli disse: — Mi chiamo Grace Evans, signor Phelan. Cos’è tutta questa storia? Perché mi hanno portata qui?

Walter la studiò, mentre lei stava parlando. Era alta di statura, alta quanto lui, e ben proporzionata. Pareva essere agli inizi della trentina, circa l’età che aveva avuto Martha. Aveva la stessa tranquilla sicurezza che gli era sempre piaciuta in Martha, anche se a volte aveva formato un vivo contrasto con la sua semplicità e trascuratezza. Sì, ripeté a se stesso, assomigliava un po’ a Martha.

— Credo di sapere perché l’hanno portata qui, ma torniamo un po’ indietro, — le disse. — Lei sa quello che è successo?

— Vuol dire che hanno ucciso… tutti?

— Sì. Prego, si sieda. Sa come l’hanno fatto?

La donna si lasciò sprofondare in una comoda poltrona lì accanto. — No, — rispose. — Non so come l’abbiano fatto. Non che abbia importanza, vero?

— Non molta, infatti. Ma ecco la storia… quello che ne so, quanto meno. Sono riuscito a far parlare uno di loro, e poi ho messo insieme i vari brandelli d’informazione. Non ce ne sono molti di loro… qui tra noi, in ogni caso. Non so quanto siano numerosi, come razza, là, nel posto da dove sono venuti, e neppure so dove si trovi questo posto, ma immagino che sia fuori dal sistema solare. Ha visto la nave spaziale con la quale sono arrivati?

— Sì. È grande quanto una montagna.

— Quasi, — precisò lui. — Insomma, è equipaggiata per emettere un certo tipo di vibrazione — la chiamano così, nella nostra lingua, ma immagino sia più simile a un’onda radio che ad una vibrazione sonora — la quale distrugge ogni forma di vita animale. La nave degli invasori, naturalmente, è isolata contro la vibrazione. Non so se la sua portata sia tale da uccidere tutte le forme di vita d’un pianeta in un colpo solo, oppure se abbiano girato tutt’intorno alla Terra continuando a emettere le onde vibratorie. Ma ha ucciso tutti, e istantaneamente e, spero, in modo indolore. La sola ragione per cui noi due, e gli altri duecento e più animali in questo zoo non siamo stati uccisi, era perché ci trovavamo dentro la nave. Siamo stati prelevati come campioni. Lei sa che questo è uno zoo, non è vero?

— Io… lo sospettavo.

— Le pareti anteriori sono trasparenti, per chi guarda da fuori. Gli zan sono stati molto abili nel sistemare l’interno di ciascun cubicolo, così da riprodurre l’habitat naturale delle creature che contiene. Questi cubicoli, come quello nel quale ci troviamo, sono fatti di plastica, e gli zan hanno una macchina che ne produce uno in circa dieci minuti. Se la Terra avesse avuto una macchina e un procedimento del genere, non ci sarebbe stata nessuna carenza di alloggi. Be’, in ogni caso adesso non c’è più nessuna carenza di alloggi. E immagino che la razza umana — in modo specifico io e lei — possiamo senz’altro smettere di preoccuparci della bomba atomica e della prossima guerra mondiale. Non c’è dubbio che gli zan abbiano risolto un sacco di nostri problemi.

Grace Evans sorrise debolmente. — Un altro caso in cui l’operazione ha avuto successo ma il paziente è morto. Le cose andavano proprio malissimo. Lei ricorda di essere stato catturato? Io no. Una sera sono andata a letto e mi sono risvegliata in una gabbia sulla nave spaziale.

— Neppure io lo ricordo, — dichiarò Walter. — Secondo me, dapprima hanno usato onde vibratorie a bassa intensità, quel tanto che bastava a far perdere i sensi a tutti. Poi sono andati in giro a raccoglier campioni, più o meno a caso, per il loro zoo. Quando ne hanno avuto il numero desiderato, o quando hanno riempito tutto lo spazio disponibile a bordo della nave, hanno aperto i rubinetti al massimo. Ed è finita. Ed è stato soltanto ieri che si sono accorti di avere fatto un errore e di averci sopravvalutati. Pensavano che fossimo immortali, come loro.

— Che fossimo… cosa?

— Loro possono venir uccisi, ma non sanno cos’è la morte naturale. In ogni caso, non lo sapevano fino a ieri. Due di noi, ieri sono morti.

— Due di… ooh!

— Sì, due di noi animali del loro zoo. Uno era un serpente e un altro un’anitra. Due specie scomparse in maniera irrevocabile, definitiva. E secondo il modo in cui gli zan misurano il tempo, i membri rimasti di ciascuna specie vivranno soltanto pochi minuti. Loro credevano invece di avere degli esemplari eterni.

— Vuol dire che non si erano resi conto che noi siamo creature dalla vita breve?

— Proprio così, — annuì Walter. — Ho parlato con uno di loro che si considera un giovanottino perché ha soltanto settemila anni… Sono bisessuati anche loro, incidentalmente, ma è probabile che generino una volta ogni diecimila anni o giù di lì. Quando ieri hanno appreso quant’è ridicolmente breve l’arco di vita di noi animali della Terra, è probabile che siano rimasti scossi fino al midollo… sempre che abbiano un midollo. In ogni caso hanno deciso di riorganizzare il loro zoo… a due a due, invece che ognuno di noi da solo. Hanno calcolato che saremmo durati più a lungo collettivamente, come razza, invece che come singoli individui.

— Oh! — Grace Evans balzò in piedi. C’era un vago rossore sul suo viso. — Se lei pensa… se loro pensano… — Si avviò verso la porta.

— Sarà chiusa a chiave, — disse Walter Phelan, senza scomporsi. — Ma non si preoccupi. Forse loro lo pensano, ma io non lo penso. Non c’è neppure bisogno che lei mi dica che non mi vorrebbe neppure se fossi l’ultimo uomo sulla faccia della Terra. Sarebbe trito e ritrito, viste le circostanze.

— Ma hanno intenzione di tenerci chiusi a chiave, insieme, in questa stanzetta?

— Non è piccola; ci arrangeremo. Io posso dormire molto comodamente in una di queste poltrone sovrimbottite. E non deve credere che io non sia perfettamente d’accordo con lei, mia cara. A parte ogni considerazione personale, il meno che possiamo fare per la razza umana è lasciare che finisca con noi cosicché non si perpetui per far mostra di sé in uno zoo.

La donna disse: — Grazie, — con voce quasi inaudibile, e il rossore sparì dalle sue guance. C’era collera nei suoi occhi, ma Walter sapeva che non era diretta a lui. Con gli occhi che le brillavano in quel modo, pensò, assomigliava moltissimo a Martha. Le sorrise e aggiunse: — Altrimenti…

La donna balzò su un’altra volta dalla poltrona, e Walter pensò per un istante che volesse avvicinarsi a lui e dargli una sberla. Poi ricadde giù con un gesto di stanchezza.

— Se lei fosse un uomo, penserebbe a qualche sistema per… Ha detto che possono venir uccisi? — C’era dell’amarezza nella sua voce.