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— Oh, certo. Li ho studiati. Sembrano orribilmente diversi da noi, ma penso che abbiano all’incirca il nostro stesso metabolismo, lo stesso tipo di sistema circolatorio e con tutta probabilità lo stesso tipo di sistema digerente. Penso che qualunque cosa in grado di uccidere noi, ucciderebbe anche uno di loro.

— Ma lei ha detto…

— Oh, ci sono delle differenze naturalmente. Qualunque sia il fattore che fa invecchiare l’uomo, loro non ce l’hanno. Oppure hanno una ghiandola che l’uomo non ha, qualcosa che rinnova le cellule.

Adesso la donna aveva dimenticato la propria collera. Si sporse in avanti avidamente. — Sì, dev’essere proprio così. E credo che non sentano il dolore.

— Anch’io l’ho sperato. Ma cosa le fa pensare che sia così, mia cara?

— Ho steso attraverso la porta un pezzo di fil di ferro che avevo trovato nel mio cubicolo, cosicché lo zan c’inciampasse e cadesse per terra. È andato proprio così: ci ha inciampato e il filo gli ha fatto un grosso taglio alla gamba.

— Ha sanguinato?

— Sì, ma non è parso dargli nessun fastidio. Non si è infuriato. Non ne ha neppure parlato. Quando è tornato la volta successiva, poche ore dopo, il taglio non c’era più. Be’… quasi più. Ho potuto vedere un piccolo segno in quel punto, così da essere sicura che fosse lo stesso zan.

Walter Phelan annuì lentamente.

— È naturale che non si sia arrabbiato, — dichiarò. — Sono privi di emozioni. Forse, se anche ne uccidessimo uno, neppure ci punirebbero. Ma non servirebbe a niente. Ci darebbero il cibo attraverso uno sportello e ci tratterebbero come gli uomini avrebbero trattato un animale dello zoo che avesse ucciso un guardiano. Farebbero in modo che non tentasse di ripetere l’impresa con qualche altro guardiano.

— Quanti ce ne sono? — chiese la donna.

— Circa duecento, credo, in questa loro nave spaziale. Ma senza alcun dubbio ce ne sono molti altri là, nel luogo da cui sono venuti. Ho la sensazione che questa sia soltanto un’avanguardia, mandata a sgomberare questo pianeta e a renderlo sicuro per l’occupazione da parte degli zan.

— Hanno fatto un buon…

Qualcuno bussò alla porta. E Walter Phelan disse: — Entra pure. — Uno zan comparve sulla soglia.

— Ciao. George, — disse Walter.

— Ci-ao, Wal-ter, — disse lo zan.

Poteva o non poteva trattarsi dello stesso zan, ma il rituale era quello, sempre lo stesso.

— Cos’hai in mente? — chiese Walter.

— Un’al-tra di quel-le creatu-re dor-me e non vuo-le sve-gliar-si. Una pic-co-la chia-ma-ta don-no-la.

Walter scrollò le spalle.

— Succede, George. È la Vecchia Morte. Ti ho parlato di lei —

— È peg-gio. Uno zan è mor-to. Sta-mat-tina.

— Questo sarebbe peggio? — Walter lo fissò, calmo. — Be’, George, dovrete abituarvi, se avete intenzione di restare qui.

Lo zan non disse niente. Restò là, immobile.

Alla fine, Walter chiese: — Allora?

— Cir-ca la don-no-la. Consi-gli lo stes-so?

Walter tornò a scrollare le spalle. — Probabilmente non servirà a niente. Ma certo, perché no?

Lo zan se ne andò.

Walter sentì i suoi passi che si smorzavano in distanza. Sogghignò. — Potrebbe funzionare, Martha, — disse.

— Mar… il mio nome è Grace, signor Phelan. Cosa potrebbe funzionare?

— Il mio nome è Walter, Grace. Tanto vale che tu ti abitui. Sai, Grace, mi ricordi molto Martha. Era mia moglie. È morta un paio di anni fa.

— Mi spiace, — disse Grace. — Ma cosa potrebbe funzionare? Di che cosa stavi parlando con lo zan?

— Lo sapremo domani, — rispose Walter. E non riuscì a tirargli fuori un’altra sola parola.

Quello era il quarto giorno dall’arrivo degli zan.

Il successivo fu l’ultimo.

Era quasi mezzogiorno, quando arrivò uno zan. Dopo il consueto rituale, si fermò sulla soglia con un’aria più aliena che mai. Sarebbe interessante descriverlo, ma non ci sono parole.

Disse: — Ce ne andia-mo. Il no-stro con-si-glio si è riu-ni-to e ha de-ciso.

— È morto un altro dei vostri?

— Que-sta not-te. Que-sto è un pia-ne-ta di mor-te.

Walter annuì. — Avete fatto la vostra parte. Lasciate vive duecentotredici creature, su parecchi miliardi. Non affrettatevi a tornare.

— C’è nien-te che pos-sia-mo fa-re?

— Sì. Potete spicciarvi. E potete lasciare aperta la porta. Questa soltanto, non quelle degli altri animali. Ci occuperemo noi degli altri.

Qualcosa fece clic alla porta; lo zan se ne andò.

Grace Evans era balzata in piedi. Gli occhi le brillavano.

Chiese: — Come…? Come…?

— Aspetta, — l’ammonì Walter. — Sentiamo prima che decollano. È un suono che voglio ricordare.

Il suono arrivò pochi minuti dopo, e Walter Phelan, accorgendosi d’essere rimasto rigido tutto il tempo, si rilassò nella poltrona.

— Anche nel giardino dell’Eden c’era un serpente, Grace, e ci ha messo nei guai, — disse, pensieroso. — Ma questo ci ha compensato. Voglio dire, il compagno del serpente morto l’altro ieri. Era un serpente a sonagli.

— Vuoi dire che ha ucciso i due zan che sono morti? Ma…

Walter annuì. — Qui, erano come bambini nel bosco. Quando mi hanno condotto a dare un’occhiata alle prime creature che si erano addormentate e non volevano svegliarsi, e ho visto che uno dei due era un serpente a sonagli, allora mi è venuta un’idea, Grace. Ho pensato che, forse, le creature velenose erano uno sviluppo tipico della Terra e che gli zan non le conoscessero. E anche che, forse, il loro metabolismo era abbastanza simile al nostro, cosicché il veleno li avrebbe uccisi. Comunque, non avevo niente da perdere se tentavo. Ed entrambi i forse si sono rivelati giusti.

— Ma come sei riuscito a fare in modo che il serpente…

Walter Phelan sogghignò. Proseguì: — Gli ho spiegato che cos’era l’affetto. Non lo sapevano. Avevo scoperto che erano interessati a conservare l’esemplare rimasto di ciascuna specie il più a lungo possibile, per studiarne l’immagine e registrarla prima che morisse. Gli dissi che il serpente sarebbe morto subito, a causa della perdita del compagno, a meno che non ricevesse affetto e carezze… costantemente. Gliel’ho fatto vedere prendendo in braccio l’anitra. Per fortuna era domestica. L’ho stretta al petto e l’ho accarezzata per un po’, per fargli vedere. Poi ho lasciato che lo facessero loro… con l’anitra, e anche col serpente a sonagli.

Si alzò in piedi e si stiracchiò. Poi tornò a sedersi, più comodamente.

— Be’, abbiamo un intero mondo da progettare, — riprese. — Dovremo far uscire gli animali dall’arca, e questo richiederà una certa riflessione prima di decidere. Gli erbivori selvatici possiamo lasciarli uscire subito. Quelli domestici faremo meglio a tenerli qui e a prendercene cura: ne avremo bisogno. Ma i carnivori… be’, dovremo decidere. Ma temo che dovrà essere pollice verso.

La fissò. — È la razza umana. Dovremo prendere una decisione in merito. Una decisione molto importante.

Il suo volto stava nuovamente imporporandosi, com’era successo l’altra volta. Rimase seduta rigida sulla poltrona.

— No! — esclamò.

Walter non parve averla sentita. — È stata una bella arrampicata, la nostra, anche se nessuno ci ha battuto le mani. Ora, la razza umana potrebbe tornare indietro e riprendere un po’ di fiato, prima della nuova rincorsa, ma intanto potremo raccogliere i libri e mantenere intatte la maggior parte delle conoscenze, in ogni caso le cose più importanti. Possiamo…

S’interruppe quando lei s’incamminò, furibonda, verso la porta. Proprio come si sarebbe comportata la sua Martha, pensò, ai vecchi tempi, quando le faceva la corte prima che si sposassero.