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7

Manuel Krug aveva avuto una giornata piena d’impegni. Ore 8. California. Sveglia, nella sua villa sulla costa di Mendocino. Il Pacifico tumultuoso quasi sulla soglia di casa. Mille ettari di sequoie come giardino, Clissa al suo fianco nel letto, flessuosa e ritrosa come una gatta. Si sentiva ancora la mente annebbiata dalla festicciola della sera precedente a Taiwan, con il Gruppo dello Spettro, e dal troppo sakè di Nick Ssu-ma, bevuto senza accorgersi che tagliava le gambe. Sullo schermo a vapori di sodio, l’immagine del maggiordomo beta che sussurrava con insistenza: «Signore, signore, per favore, alzatevi. Vostro padre vi aspetta alla torre». Clissa che si rannicchiava tutta contro di lui. Manuel sbatté gli occhi, sforzandosi di allontanare dal cervello la coltre di bambagia che lo avvolgeva. «Signore, scusatemi, avevate lasciato ordini irrevocabili di svegliarvi!». E subito una nota a 40 hertz brontolò dal pavimento; un secondo cono di suoni, a 15 mila hertz, sventagliò su di lui dal soffitto; si scoprì impalato tra i due, incapace di rifugiarsi nel sonno. Un crescendo. E il risveglio riluttante, risentito. Poi la sorpresa: Clissa che si muoveva, che gli prendeva titubante la mano per appoggiarsela sul seno fresco e minuto. Manuel lasciò convergere le dita, e lo trovò ancora soffice. Proprio come s’aspettava. L’approccio della moglie bambina è molto ardito, ma la carne è debole anche se lo spirito è volenteroso. Erano sposati da due anni e lui, nonostante l’impegno, lo sforzo e l’abilità non era ancora riuscito a destarle pienamente i sensi. — Manuel… — sussurrava lei — Manuel… toccami…

Allontanarla era una crudeltà. — Dopo… — dovette dirle, con quei due spaventosi fasci di suono che gli entravano in collisione nel cervello. — Bisogna alzarsi: ci aspetta il patriarca. Oggi ci tocca andare alla torre.

Clissa gli fece il broncio. Scesi dal letto, subito l’infame suono cessò. Fecero doccia e colazione e si vestirono. — Davvero vuoi che ti accompagni? — chiese lei.

— Sì. Mio padre ha detto chiaro che sei invitata — rispose Manuel. — Dice che è giunta l’ora di vedere la torre anche per te. Come mai non hai voglia di andarci?

— Ho paura di commettere qualche sciocchezza, di dire qualche stupidaggine. Mi sento terribilmente immatura quando gli sono vicina.

— Ma tu sei terribilmente immatura. Non badarci: gli piaci moltissimo. Devi far solo finta di essere molto molto molto affascinata dalla torre: se anche dirai qualche sciocchezza, lui non se ne accorgerà.

— E gli ospiti… il senatore Fearon, lo scienziato, e chissà chi altro… Manuel, mi sento già imbarazzata adesso!

— Clissa!

— Sì. Sì.

— E ricorda: la torre deve sbalordirti. Come se fosse la più grande impresa dell’umanità dopo il Taj Mahal. Dovrai dirglielo, dopo averla vista. Non come te l’ho detto io, s’intende; devi dargli l’idea con parole tue.

— Lui ci tiene molto alla torre, no? — chiese Clissa. — Si aspetta davvero di parlare con le stelle?

— Sì.

— E quanto gli costerà?

— Miliardi — rispose Manuel.

— Ci consuma l’eredità per costruirla. Spenderà tutto.

— No, tutto no. Qualche spicciolo ci rimarrà sempre. Ma in fondo i soldi se li è fatti lui: se li spenda pure come gli garba.

— Ma per un’ossessione… per una fantasticheria…

— Piantala, Clissa. Queste cose non ci riguardano.

— Almeno, dimmi una cosa. Supponiamo che tuo padre muoia improvvisamente, domani, e che tutto venga in mano a te. Cosa succederebbe alla torre?

Manuel formò le coordinate per il balzo trasmat a New York.

— Farei sospendere i lavori entro ventiquattr’ore — rispose. — Ma se solo provi a dirglielo ti taglio la gola. Ora entra. Si parte.

Ore 11 e 40. New York. Già quasi mezzogiorno, ed era sveglio solamente da una quarantina di minuti (precipitosissimi), dopo la levataccia alle otto. Era uno dei soliti fastidi della civiltà trasmat: passando a oriente si perdevano piccoli segmenti cronologici, che finivano in fondo a qualche saccoccia temporale nascosta.

Ma, naturalmente, il conto veniva pareggiato dai doni elargiti a chi viaggiava nel verso opposto. L’estate del ’16, alla vigilia del matrimonio, Manuel e gli amici del Gruppo dello Spettro avevano fatto la corsa dell’alba, percorrendo la faccia del mondo in direzione occidentale. Avevano cominciato alle sei del sabato, nella Riserva di Caccia Ambroseli, con il sole che montava da dietro il Kilimanjaro, e poi erano saltati a Kinshasa, Accra, Rio, Caracas, Vera Cruz, Albuquerque, Los Angeles, Honolulu, Auckland, Brisbane, Singapore, Pnompenh, Calcutta, Mecca. Nel mondo dei trasmat non c’era bisogno di visti né di passaporti: il mezzo di trasporto istantaneo aveva fatto diventare assurdi quei vecchiumi. Il povero Sole, come sempre, arrancava nel cielo a meno di duemila chilometri l’ora, ma i viaggiatori potevano balzare da un punto all’altro senza le remore dell’astro. Si erano fermati un quarto d’ora qui, venti minuti là, a farsi un bicchiere o a iniettarsi un sollevato, a comprare ricordini di viaggio e a visitare famose anticaglie, ma avevano continuato a guadagnare tempo, indietreggiando sempre più nelle ore della notte precedente, superando il sole nella corsa intorno al globo, ed erano entrati nella sera del venerdì. Naturalmente si erano persi tutto il guadagno quando, tagliando il meridiano del cambiamento di data, erano cascati nel pomeriggio del sabato. Ma avevano rosicchiato la perdita continuando a ovest: al loro ritorno al Kilimanjaro non erano neppure le undici, si trovavano nello stesso sabato mattina in cui erano partiti, avevano fatto il giro del mondo e vissuto un venerdì e mezzo.

Con il trasmat si potevano fare cose di questo genere. Inoltre, programmando con cura la successione dei balzi, si potevano anche vedere ventiquattro tramonti nella stessa giornata, o passare la vita sotto il bagliore di un eterno mezzodì. Comunque, arrivando a New York alle undici e quaranta dalla California, Manuel provava fastidio per aver dovuto regalare al trasmat una bella fetta della sua mattinata.

Nell’ufficio, il padre lo salutò formalmente con una pressione delle palme, poi passò ad abbracciare Clissa in modo molto più caloroso. Leon Spaulding gli aleggiava al fianco, con espressione inquieta. Quenelle guardava dalla finestra il panorama cittadino e girava la schiena a tutti. Manuel non provava alcuna simpatia per lei. Di solito, le amanti del padre lo lasciavano indifferente. Il vecchio sceglieva sempre lo stesso tipo di donna: labbra piene, poppe grosse, grandi chiappe, occhi foschi, cosce pesanti. Gusti da contadino.

— Devono ancora arrivare il senatore Fearon, Tom Buckleman e il professor Vargas — spiegò Krug. — Thor ci farà visitare la torre in grande stile. Che impegni hai per il resto della giornata, Manuel?

— Non ho ancora…

— Vai a Duluth. Desidero che tu prenda conoscenza del tipo di lavorazione svolto da quella fabbrica. Leon, avverti Duluth: mio figlio sarà da loro nel primo pomeriggio, per una breve visita d’ispezione.

Spaulding si allontanò. Manuel scrollò le spalle: — Come vuoi tu, Padre.

— È ora che ti assuma più responsabilità, ragazzo mio. Per sviluppare le tue disposizioni manageriali. Un giorno sarai a capo di tutto, non ti pare? Quel giorno, quando la gente dirà Krug, intenderà parlare di te.

— Cercherò di essere degno della tua fiducia — disse Manuel.

Sapeva che non sarebbe mai riuscito a incantare il vecchio con quel tipo di affermazioni. E l’esibizione d’orgoglio paterno non incantava neppure lui. Manuel sapeva benissimo che il padre lo disprezzava, fondamentalmente. Riusciva perfino a vedersi come lo vedeva il padre: un perdigiorno, un eterno playboy. E invece come si vedeva lui stesso: sensibile, dolce, troppo raffinato per scendere a lottare nell’arena finanziaria. Ma subito, da quell’immagine, nacque una terza prospettiva di Manuel Krug: vacuo, schietto, idealista, futile, incompetente. Qual era il vero Manuel? Non lo sapeva neppure lui. Più invecchiava, meno si capiva.