— No — disse Manuel. — È stata una visita molto piacevole. Ma le ho già rubato fin troppo tempo, e inoltre ho un appuntamento. Davvero, devo proprio…
Bompensiero non parve dispiaciuto di toglierselo dai piedi. — Come lei desidera — disse affabilmente. — E, naturalmente, siamo sempre a sua disposizione quando desidererà farci nuovamente visita, e…
— Per favore, dov’è la cabina trasmat?
Ore 22 e 41. Stoccolma. Passando in Europa, Manuel perse il resto della giornata. Una serata gelida, scura, era scesa su questa parte del globo; le stelle splendevano chiare e un vento di neve increspava le acque del Mälaren. Per escludere ogni possibilità di venire seguito, Manuel aveva formato le coordinate della cabina trasmat pubblica posta nella hall dello stupendo Grand Hotel. Poi, rabbrividendo, si era immerso rapidamente nella tenebra autunnale, aveva raggiunto un’altra cabina, accanto alla grande mole dell’Opera Royal, aveva appoggiato il pollice sulla piastra d’incasso e si era acquistato un passaggio per l’altra parte di Stoccolma. Era emerso nel tranquillo, giubilato distretto residenziale di Östermalm. Oggi quel quartiere era diventato il ghetto degli androidi. Scese in fretta la Birger Jarlsgatan e raggiunse la casa dove abitava Lilith: un palazzone del diciannovesimo secolo, che ai suoi tempi era stato un edificio lussuosissimo. Si fermò fuori dall’ingresso, si guardò attentamente alle spalle, vide che la strada era vuota, ed entrò rapidamente nell’androne. Dalla portineria, un robot lo scrutò e gli chiese con voce metallica, da rana, lo scopo della sua presenza. — Visita a Lilith Mesone, alfa — rispose Manuel. Il robot non fece obiezioni. Manuel poteva scegliere tra l’ascensore e le scale. Scelse le scale. Odore di muschio e ombre danzanti sulle pareti lo accompagnarono fino al quinto piano dove abitava Lilith.
Lilith lo accolse in un’elegante vestaglia variegata, aderentissima e lunga fino a terra. Poiché era una pellicola dello spessore di una molecola, non le nascondeva nessuna parte del corpo. Scivolò in avanti a braccia tese, le labbra socchiuse, il petto ansante, sussurrando il suo nome. Lui l’abbracciò.
La vide scivolare, come un piccolo grumo, sul liquido di una vasca.
La vide come una massa di nucleotidi in replicazione.
La vide nuda e umidiccia, con il vuoto negli occhi, uscire a passi incerti dalla camera vivaio.
La vide come una cosa, fabbricata dall’uomo.
Una cosa. Una cosa. Una cosa. Una cosa. Una cosa. Una cosa. Una cosa. Una cosa.
Lilith.
L’aveva conosciuta cinque mesi prima. Da tre erano amanti. Li aveva presentati Thor Guardiano. Lilith faceva parte dello staff di Krug.
Il corpo di lei premeva contro il suo. Manuel sollevò la mano e l’appoggiò sul seno. Il contatto era fermo, reale, tiepido oltre la vestaglia monomolecolare. Le sfiorò la pelle col pollice e la sentì alzarsi in eccitazione. Reale. Reale.
Una cosa.
La baciò, sfiorandole i denti, e sentì sulla lingua il sapore dei composti chimici. Adenina, guanina, citosina, uracile. Sentì nelle nari l’odore delle vasche. Una cosa. Una cosa. Una cosa bellissima. Una cosa in forma di donna. Proprio il nome adatto: Lilith. Una cosa.
Lei si sciolse dall’abbraccio. — Sei andato alla fabbrica — disse.
— Sì.
— E hai visto più cose sugli androidi di quanto non avresti voluto vederne.
— No, Lilith.
— E ora mi vedi con occhi diversi. Non puoi fare a meno di ricordare la mia realtà.
— Non è affatto vero — disse Manuel. — Lilith, ti amo. La tua realtà l’ho sempre saputa. E non ha mai fatto differenza. Ti amo. Ti amo.
— Prendi qualcosa? — chiese lei. — Un’erba? Un sollevato? Mi sembri un po’ scosso.
— No, grazie — rispose. — È stata una giornata lunga. Non ho neppure fatto colazione, e saranno quaranta ore che non dormo come Dio comanda. Mi basta solo un po’ di relax. Niente erba o sollevato. — Manuel si sfilò le fibbie dell’abito; lei lo aiutò a toglierselo. Poi Lilith azionò il doppler: la secca esplosione di ultrasuoni sciolse la trama della vestaglia e liberò la sua pelle, completamente rossa a eccezione delle macchie brune in punta ai seni. Aveva petto pieno, vita sottile; dai fianchi le luccicava un’impossibile promessa di fertilità. Una bellezza disumana, priva di difetti. Manuel lottò con l’arsura che si sentì salire alla gola.
Tristemente, lei disse: — Ho visto un cambiamento in te, nell’istante in cui mi hai toccato. Eri diverso. Ho sentito come un timore, un disgusto…
— No.
— Fino a oggi rappresentavo qualcosa di esotico, sì, ma di umano. Come un boscimano, che so, un eschimese. Non mi mettevi in un’altra categoria, fuori della razza umana. Ora pensi di esserti innamorato di un mucchio di composti chimici. Pensi che c’è qualcosa di torbido nella relazione con me.
— Lilith: smettila, ti prego. È solo immaginazione.
— Lo è davvero?
— Vengo da te. Ti bacio. Ti dico che ti amo. E adesso andiamo a letto insieme. Tu proietti un tuo senso di colpa, quando pensi che io…
— Manuel, cos’avresti detto, un anno fa, se un amico ti avesse confessato di essere andato a letto con un’androide?
— Conosco un mucchio di gente che c’è andata…
— Su, cos’avresti detto di lui? Che parole avresti usato? E cosa ne avresti pensato?
— Non ho mai badato a queste cose. Davvero. Non me ne sono mai interessato. Mai.
— Non sfuggire alla domanda. Ricorda quello che ci siamo promessi: di non dirci mai, tra noi due, quel tipo di innocenti bugie che la gente si dice sempre. Allora? Non puoi negare che, a ogni livello sociale, il rapporto sessuale tra uomini e androidi è considerato perversione. Magari l’ultima perversione rimasta sulla faccia della terra. Non ho ragione? Rispondi!
— D’accordo. — Incontrò gli occhi di lei. Non aveva mai visto una donna con occhi di quel colore. Lentamente, disse: — Molti pensano che andare a letto con gli androidi sia… dozzinale, volgare. L’ho sentito paragonare alla masturbazione. Come farlo con un manichino di gomma. E quando ho sentito questo tipo di affermazioni, ho sempre pensato che fossero stupide, spiacevoli manifestazioni di pregiudizio verso gli androidi. Per quel che riguarda me, naturalmente, non ho mai condiviso tale atteggiamento, altrimenti non mi sarei innamorato di te. — Una voce gli echeggiava nella mente, beffarda: Pensa alle vasche! Pensa alle vasche! Evitò di guardarla negli occhi; tenne fisso lo sguardo sullo zigomo. Aggiunse, cupo: — Lilith, ti giuro su tutto l’universo che non ho mai pensato che fosse vergognoso, o sporco, amare un’androide. E malgrado quel che dici di vedere in me dopo la visita alla fabbrica, ti ripeto che non lo penso neppure ora. Se vuoi che te lo dimostri…
La strinse a sé. Sulla sua pelle di seta, la mano gli scivolò giù, dal seno al fianco, all’addome. Lei si spostò leggermente, e lui serrò le dita sull’inguine, glabro come quello di una bambina; subito la diversità del contatto lo scosse: se ne sentì svirilizzato, anche se la differenza, prima, non gli aveva mai dato fastidio. Così liscio. Così tremendamente liscio. Abbassò gli occhi su quella pelle spoglia. Spoglia, sì, ma non perché ci fosse passato il rasoio. Spoglia come quella di una bambina. Come quella… di un’androide. Rivide le vasche. Vide gli alfa umidi e rossicci, gli occhi privi d’espressione. Si ripeté, caparbiamente, che amare un’androide non era peccato. L’accarezzò, e lei rispose come avrebbe risposto una donna, con l’ansia nel respiro, serrandogli la mano. Le baciò il petto e la strinse a sé. E subito gli parve di scorgere la bruciante immagine di suo padre, librata su di lui come una colonna di fuoco. Il vecchio demonio, il vecchio artefice! Che astuzia: inventare un prodotto simile! Un prodotto. Un prodotto che cammina, parla, seduce. Ansima nella passione, risponde fisiologicamente, questo prodotto. E io, che cosa sono? Un altro prodotto. Un mucchio di composti chimici, fabbricato con lo stesso stampo costruttivo… mutatis mutandis, certo. Adenina. Guanina. Citosina. Uracile. Partorito da una vasca o covato in un ventre, che differenza fa? Siamo una carne sola. Apparteniamo a razze diverse, ma la carne è sempre quella.