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20

— Un nuovo segnale — disse Vargas. — Leggermente diverso. Abbiamo cominciato a riceverlo questa notte.

— Aspettami — disse Krug. — Vengo da te.

Era a New York. Quasi immediatamente passò nell’osservatorio di Vargas in Antartide, costruito sul pianoro polare in un punto equidistante dal Polo e dalle residenze della Costa di Knox. Alcuni sostenevano che la civiltà trasmat impoveriva la vita da una parte mentre la arricchiva dall’altra: l’effetto theta ti faceva passare agilmente dall’Africa all’Australia, al Messico, alla Siberia con un singolo passo di danza, ma ti toglieva ogni vero senso del luogo e del passaggio, e così pure ogni concetto geografico del pianeta. Trasformava la Terra in una singola, infinita cabina trasmat. Krug si era ripromesso varie volte di fare il giro del mondo in aeroplano, per vedere il deserto sfumare nella prateria, la foresta nella tundra spoglia, la montagna nella pianura. Ma non si era mai deciso a trovare il tempo necessario.

L’osservatorio era costituito da una serie di eleganti cupole, bianche e lucide, poggiate su una coltre di ghiaccio spessa due chilometri e mezzo. Tunnel scavati nel ghiaccio collegavano tra loro le cupole e davano accesso alle apparecchiature esterne: il vasto cerchio dell’antenna parabolica del radiotelescopio; la rete metallica del ricevitore di raggi X; lo specchio che raccoglieva le trasmissioni dell’osservatorio orbitante, librato a grande altezza sul Polo Sud; il tozzo, corto telescopio ottico a diffrazione multipla, le tre punte dorate dell’antenna per le frequenze idrogeno; la rete sospesa di un sistema multiradar e tutto il resto degli strumenti che occorrevano agli astronomi per fare la guardia all’universo. Invece di usare nastri refrigeranti per evitare la fusione del ghiaccio sotto le costruzioni, lì era stata impiegata una singola piastra scambiatrice di calore per ciascuna delle strutture, cosicché ogni edificio era una piccola isola sul vasto ghiacciaio.

Nell’edificio centrale c’era un mucchio di apparecchi che ronzavano, ticchettavano e lampeggiavano. Krug non capiva molto di quella strumentazione, ma ne ricavava un’impressione debitamente scientifica. C’erano molti tecnici che si aggiravano affaccendati; un alfa, fermo su un balzo da capogiro, si faceva leggere dei numeri da alcuni beta sotto di lui; ogni tanto s’accendeva un breve sprazzo di luce rossa all’interno di una serpentina di vetro lunga una ventina di metri, e a ogni scarica scattavano numeri rossi e verdi su un contatore.

Vargas disse: — Osserva la serpentina a radon. Registra gli impulsi ricevuti. Ecco. Inizia un nuovo ciclo, lo vedi?

Krug contemplò la registrazione degli impulsi.

— È completo — disse Vargas. — Adesso c’è una pausa di sei secondi, poi ricomincia.

— 2-5-1, 2-3-1, 2-1 — disse Krug. — E prima era 2-4-1, 2-5-1, 3-1. Hanno eliminato completamente il gruppo con il 4, hanno spostato all’inizio del ciclo il gruppo con il 5, hanno completato il gruppo del 3, hanno aggiunto un impulso nel gruppo finale… accidenti, Vargas, ma che senso ha? Cosa significa?

— Non abbiamo individuato nel nuovo messaggio più contenuti di quanti non ne avessimo individuati nel primo. Entrambi hanno fondamentalmente la stessa struttura. Solo una piccola alterazione…

— Ma deve significare qualcosa!

— Forse sì.

— E come possiamo scoprirlo?

— Glielo chiederemo — disse Vargas. — Presto. Per mezzo della tua torre.

Krug lasciò cadere le spalle. Si piegò in avanti, afferrò le manopole lisce e fredde, verdi, di un incomprensibile strumento che sporgeva dalla parete. Quei messaggi hanno 300 anni — disse, cupo. — Se il loro pianeta è come dici tu, è come se per noi fossero 300 secoli. Anche più. Non ricorderanno il messaggio inviato dai loro antenati. Saranno mutati in modo incomprensibile.

— No. Una continuità ci dev’essere. Non potrebbero avere raggiunto il livello tecnologico necessario per inviare messaggi interstellari, se non fossero capaci di conservare il ricordo delle generazioni precedenti.

Krug si voltò di scatto: — Sai cosa dico? La nebulosa planetaria, il sole azzurro… continuo a credere che non possa ospitare degli esseri intelligenti. Anzi, che non possa ospitare nessuna forma di vita! Ascolta. Le stelle azzurre durano poco, Vargas. La superficie di un pianeta richiede milioni di anni solo per raffreddarsi quanto basta per solidificare. Con un sole azzurro non ce n’è affatto il tempo. E se quel sole ha un pianeta, quel pianeta è ancora allo stato magmatico. Vorresti farmi credere che i segnali provengono da un popolo che vive su una sfera di fuoco?

Vargas disse, piano: — Quei segnali provengono da NGC 7293, la nebulosa planetaria in Acquario.

— E ne sei sicuro?

— Sicurissimo. Posso mostrarti tutti i dati, se vuoi.

— Lascia stare. Ma come fanno? Una sfera di fuoco…

— Non è detto che sia una sfera di fuoco. Forse alcuni pianeti si raffreddano prima degli altri. Non possiamo sapere quanto ci abbia messo a raffreddarsi. Non sappiamo la distanza che separa il pianeta dal suo sole. Alcuni modelli suggeriscono la possibilità che un pianeta possa raffreddarsi abbastanza in fretta, anche con un sole azzurro, da…

— È una sfera di fuoco, quel pianeta — ripeté Krug, ostinato.

Vargas, ora sulla difensiva, disse: — Forse. Ma forse no. E anche se lo fosse, credi che tutte le forme di vita debbano abitare pianeti dalla superficie solida? Si possono benissimo immaginare civiltà di esseri delle alte temperature, evoluti su mondi che non si sono ancora raffreddati. Se…

Krug sbuffò. — E hanno trasmettitori fatti di metallo liquido? — disse.

— Non è detto che quei segnali siano prodotti con uno strumento meccanico. Supponiamo che riescano ad alterare la struttura molecolare delle…

— Professore, tu mi racconti favole. Vado da uno scienziato e ascolto delle favole!

— In questo momento, le favole sono l’unico modo per spiegare i dati in nostro possesso — disse Vargas.

— Ma sai benissimo che la spiegazione dev’essere più plausibile! So solo che riceviamo dei segnali, e che i segnali giungono dalla nebulosa planetaria, fuor d’ogni dubbio. So bene quanto la cosa sia poco plausibile. Ma non è detto che l’universo debba sempre essere plausibile. Non è detto che i suoi fenomeni debbano sempre avere una spiegazione immediata. Il trasmat non sarebbe stato plausibile per uno scienziato del diciottesimo secolo. Noi raccogliamo dati come meglio possiamo, e poi cerchiamo di spiegarli con delle ipotesi; a volte queste ipotesi sono piuttosto azzardate, perché i dati a disposizione sembrano privi di senso, tuttavia…

— L’universo non bara — disse Krug. — L’universo gioca onesto!

Vargas sorrise. — Non c’è dubbio. Ma per riuscire a spiegarci la NGC 7293 occorrono altri dati. Per ora dobbiamo accontentarci delle favole.

Krug assentì. Chiuse gli occhi e accarezzò manopole e contatori, mentre sfrigolava, divampava, ribolliva nel suo intimo un’impazienza rabbiosa, mostruosa. Ehi, voi gente delle stelle! Ehi, voi che mandate i segnali! Chi siete? Dove siete? Maledizione, voglio saperlo!

Cosa volete dirci?

Cosa state cercando?

Cosa significa tutto ciò? E se morissi senza scoprirlo!

— Sai cosa vorrei fare? — riprese d’improvviso Krug. — Vorrei andare fuori, nel tuo radiotelescopio. Arrampicarmi sul suo grande disco. E portare le mani alla bocca per gridare dei numeri a quei bastardi. Com’è il segnale, adesso? 2-5-1, 2-3-1, 2-1? Mi fa impazzire. Dovremmo rispondere subito. Mandare numeri: 4-10-2, 4-6-2, 4-2. Tanto per fargli vedere che siamo qui. Tanto per farglielo sapere.