Entrò nella cabina trasmat più vicina e regolò le coordinate senza pensarci: lasciò che le dita scegliessero automaticamente la destinazione. Uscì dal campo e si trovò nella residenza californiana del figlio Manuel.
Non aveva pensato a far visita al figlio. Rimase immobile, batté gli occhi al sole del pomeriggio e rabbrividì al tocco dell’atmosfera tiepida sulla pelle, che fino a pochi istanti prima era esposta ai rigori dell’Artico. Aveva sotto i piedi un pavimento di lastre d’ardesia; le pareti ai suoi fianchi erano due ondeggianti turbini di luce prodotta dai proiettori polifasici installati nelle fondamenta; sopra di lui non c’era il tetto, ma solo un campo di repulsione regolato sui toni alti dello spettro: si scorgevano, al di là, i rami carichi di frutti di un albero con foglie piumose, verde scuro. Sentiva il ruggito della risacca. Cinque o sei domestici androidi, intenti alle faccende quotidiane, si arrestarono e lo fissarono a bocca aperta. Sentì un mormorio intimorito: “Krug… Krug…”
Giunse Clissa. Indossava una veste verde e vaporosa che le rivelava il seno piccolo e alto, i fianchi ossuti, le spalle strette. — Non mi avevi detto che saresti venuto…
— Sono venuto così, d’impulso.
— Ti avrei preparato qualcosa!
— No, lascia stare: non mi serve nulla di particolare… Ho fatto un salto qui, ecco tutto. Manuel è…
— No, non c’è.
— Ah. E dov’è?
Clissa scrollò le spalle. — Fuori. Affari, credo. Non arriverà prima di sera, penso. Posso offrirti…
— No. No. Che bella casa avete, Clissa. Accogliente. Vera. Tu e Manuel dovete essere proprio felici qui. — Rivolse uno sguardo alle sue forme sottili. — Ed è un così bel posto per avere bambini. La spiaggia… il sole… gli alberi…
Un androide portò due poltroncine chiare come specchi: le schiuse e le fissò con gesto collaudato. Un altro aprì la cascata che scrosciava dietro la casa. Un terzo accese una candela aromatica: odore di garofano e di cinnamomo si diffuse nel cortiletto. Un quarto offrì a Krug un vassoio di dolci lattiginosi. Krug scosse la testa. Rimase in piedi, e così pure Clissa. Clissa pareva a disagio.
Rispose: — Siamo ancora sposini, sai. Abbiamo tempo per i bambini…
— Siete sposati da due anni, no? È abbastanza lunga, come luna di miele!
— Be’…
— Almeno chiedete il certificato. Potreste cominciare a pensare ai figli. Voglio dire, sarebbe ora che voi… sarebbe ora che io… un nipote…
Clissa serrò le dita sul vassoio e glielo presentò. Il suo volto era impallidito; i suoi occhi parevano due opali in una maschera di ghiaccio. Krug scosse ancora la testa.
Disse: — Comunque, tutto il lavoro di allevare i figli lo farebbero gli androidi. E se non vuoi affaticarti puoi sempre averli per ectogenesi.
— Scusami — disse lei, piano. — Ne abbiamo già parlato altre volte. Oggi sono un po’ stanca.
— Mi spiace. — Si diede dello sciocco perché aveva insistito troppo. Il suo solito errore: la diplomazia non era il suo forte. — Non ti senti bene?
— No, solo un po’ di stanchezza — disse lei, senza convincerlo. Parve fare uno sforzo per mostrare più volontà. Fece un gesto, e uno dei beta versò una catasta di cerchietti metallici, luccicanti, che ruotavano misteriosamente su un asse nascosto: una nuova scultura, si disse Krug. Un altro androide regolò le pareti, e subito lui e Clissa si trovarono immersi in un cono di calda luce ambrata. Una musica accarezzò l’aria, proveniente da una nube sfavillante di ripetitori che galleggiavano, minuti come polvere, nell’aria del cortile. Clissa disse, con più enfasi del necessario: — Come va la tua torre?
— Bellissima. Bellissima. Dovresti vederla.
— Sì, potrei venire la prossima settimana. Se non fa troppo freddo. È già arrivata a 500 metri?
— Di più, di più. E continua a salire. Ma per me non farà mai abbastanza in fretta. Sono ansioso di vederla terminata, Clissa. Di poterla usare. L’impazienza mi fa quasi star male.
— Mi sembri un po’ teso, oggi — disse lei. — Rosso, eccitato. Qualche volta dovresti rallentare un po’ il ritmo.
— Rallentare il ritmo? E perché? Sono così vecchio? — Si accorse che aveva gridato. In tono più sommesso, aggiunse: — Sì, forse hai ragione. Non lo so. Ma ora è meglio che me ne vada. Non voglio portarti via altro tempo. Desideravo solo farvi una visita. — Bit bit. Boom. - Di’ a Manuel che non c’era nessuna ragione particolare, d’accordo? Tanto per dare un saluto. Quand’è che ci siamo visti l’ultima volta? Due settimane, tre. Non l’ho più visto. Da quando è uscito fuori da quel suo salone di trasferimento. A volte un uomo ha anche voglia di vedere il figlio. — L’abbracciò d’impulso, la trasse a sé, le fece una carezza. Gli sembrava di essere un orso che accarezzava una silfide. Attraverso la veste sottile, sentiva la pelle di lei, gelida. Era tutta ossa. Se l’avesse stretta troppo l’avrebbe spaccata in due… Chissà quanto pesava, cinquanta chili? Macché, meno. Ha il corpo di una bambina. Magari non può neppure averne, di figli. Krug si scoprì a cercare di immaginare Manuel a letto con lei, e subito rifiutò quel pensiero, stupito. Le baciò una gota gelida. — Prenditi cura di te — disse. — Anch’io farò lo stesso. Prendiamoci cura tutt’e due, riposiamoci. Salutami Manuel.
Corse al trasmat. Dove andare, ora? Krug si sentiva febbricitante. Gli bruciavano le guance. Era alla deriva, galleggiava nell’ampio petto del mare. Una serie di coordinate trasmat gli si affacciava alla mente; frenetico, le compose sulla macchina. Bit. Bit. Bit. Lo squamoso fruscio delle stelle gli pungeva il cervello. 2-5-1, 2-3-1, 2-1. Pronto? Pronto? L’effetto theta lo inghiottì.
Al passo successivo si trovò in una caverna immensa, stantia.
C’era un soffitto alto chilometri e chilometri, opaco per la distanza. C’erano pareti metalliche, color giallo sporco e riflettenti, che si incurvavano verso un lontano punto di convergenza, Un’illuminazione aspra, brillante e instabile. L’aria era macchiata di ombre dentate. Si sentivano rumori di costruzione: crac, tum, pin; bruum. C’erano androidi al lavoro, dappertutto. Si avvicinavano a lui, si fermavano a una certa distanza, lo fissavano con timore, dandosi colpi di gomito, sussurrando: “Krug… Krug… Krug…”. Cos’avranno gli androidi da guardarmi tutti così? Rivolse loro un’occhiataccia. Si sentiva madido di sudore. Aveva le gambe malferme. Bisogna che mi faccia dare da Spaulding un tranquillante: ma Spaulding chissà dov’è. Oggi Krug viaggiava da solista.
Davanti a lui comparve un alfa: — Non ci aspettavamo il piacere di una vostra visita, signor Krug.
— Un capriccio. Sono di passaggio, tanto per dare un’occhiata. Scusa, come ti chiami?…
— Romolo Fusione, signore.
— Che forza di lavoro hai, Alfa Fusione?
— Settecento beta, signore, e novemila gamma. Gli alfa sono pochi, qui: per la maggior parte dei lavori di sorveglianza ci affidiamo ai sensori. Posso accompagnarvi, signore? Preferite vedere le vetture lunari o i moduli gioviani? O forse l’astronave?