— Pensa tu a Quenelle — disse Krug. — Arriverà sotto. Tienla occupata: non voglio venir disturbato per tutta la prossima ora.
Spaulding uscì. Krug chiuse gli occhi.
La caduta del blocco l’aveva davvero scosso. Non era il primo infortunio nella costruzione della torre, e probabilmente non sarebbe stato l’ultimo. Oggi erano andate perdute alcune vite. Solo vite androidi, sì, ma sempre vite. Lo spreco di vite, lo spreco di energia, lo spreco di tempo lo mandavano in bestia. Come avrebbe potuto innalzare la torre, se continuavano a cadere blocchi? Come avrebbe potuto mandare oltre il cielo il messaggio dell’esistenza dell’uomo, della sua importanza, senza la torre? Come avrebbe potuto fare le domande che doveva fare?
Krug soffriva. Di fronte all’immensità del compito che si era imposto, si sentiva prossimo alla disperazione.
Nei momenti di fatica o di tensione, Krug avvertiva più che mai la presenza del proprio corpo: l’avvertiva morbosamente, come la prigione che rinserrava la sua anima. Le pieghe di carne sulla pancia, l’isola di perpetua rigidità alla base del collo, l’esile tremito della palpebra sinistra, la leggera, continua pressione della vescica, l’arsura della gola, l’esitazione della rotula, ogni indizio della propria caducità riecheggiava come uno scampanellio. Spesso vedeva il proprio corpo come una cosa assurda: un banale sacco di carne, ossa, sangue e feccia, con un assortimento di tubi, fili, corde e stracci, piegato dall’assalto del tempo, sempre più deteriorato da un anno all’altro e da un’ora all’altra. Può esserci qualcosa di nobile, in un simile mucchio di protoplasma? Le unghie: un paradosso! Le nari: un’idiozia! I gomiti: una sciocchezza! Eppure, grigio e attento, sotto la corazza delle ossa craniche, c’era il cervello: il cervello che continuava a ticchettare, come una bomba sepolta nel fango. Disgusto per la carne e ammirazione, soggezione per il cervello: ecco i sentimenti di Krug. Per il cervello suo, e per quello umano in generale. Il suo Io, la sua personalità, la vera e interiore krugghità che era in lui stavano tutti in quella soffice massa di tessuto nervoso e nelle sue circonvoluzioni. Lì stavano, non in altri posti; non nell’intestino; non nell’inguine; non nel torace. Nella mente. Il corpo già marcisce mentre ancora il proprietario lo indossa; la mente che contiene s’innalza alle più remote galassie.
— Massaggio! — latrò Krug.
Il timbro con cui aveva dato l’ordine fece uscire dalla parete una tavola liscia e vibrante. Nella stanza entrarono tre androidi femmina, sempre pronte nell’eventualità di un richiamo. Flessuose, nude, le androidi erano tre comuni modelli gamma: salvo le solite piccole differenze somatiche (programmate di routine) sarebbero parse gemelle. Avevano seno piccolo, alto, e ventre piatto; lunghe le cosce, piene le natiche. I capelli e le sopracciglia, contrastando con tutto il resto dell’epidermide, che era glabro, conferivano loro una certa espressione asessuata, anche se portavano il solco del sesso, chiaro e inconfondibile, iscritto tra le cosce: se gliene fosse venuto il gusto, Krug avrebbe potuto separarle e trovare al loro interno una convincente imitazione della passione. Quel gusto non gli era mai venuto, ma aveva voluto inserire ugualmente un elemento di sensualità nel progetto dei suoi androidi. Aveva dato alle sue creature organi genitali perfettamente funzionali (pur se sterili) per lo stesso motivo cui aveva dato loro un normale ombelico (assolutamente superfluo). Voleva che le sue creature avessero aspetto umano (salvo le differenze indispensabili) e che potessero compiere quasi tutte le funzioni compiute dagli esseri umani. I suoi androidi non dovevano essere dei robot. Aveva deciso di creare degli esseri umani sintetici, non delle semplici macchine.
Le tre gamma lo svestirono con competenza e presero a massaggiarlo con mani addestrate: solerti e instancabili, gli scioglievano la carne e gli ridavano tono ai muscoli. Intanto Krug, prono sull’asse, fissava il vuoto dell’ufficio e le immagini sulla parete opposta.
Era un ambiente arredato con semplicità, quasi spartano. Solo un lungo rettangolo che comprendeva la scrivania, un terminale, una piccola scultura scura e un tendaggio nero che, sfiorando il pulsante del depolarizzatore, mostrava il panorama di New York, giù in basso. L’illuminazione indiretta e smorzata stendeva sull’ufficio un crepuscolo perpetuo. L’unica macchia di luce era un disegno, luminescente, giallo vivo, che brillava da una parete:
Era il messaggio delle stelle.
Inizialmente, l’osservatorio di Vargas lo aveva raccolto come una serie di deboli impulsi radio a 9100 megacicli: due rapidi bit, pausa, quattro bit, pausa e così via. La configurazione si era ripetuta mille volte nei due giorni successivi, e poi era cessata. Un mese dopo, era comparsa a 1421 megacicli (la frequenza 21 cm dell’idrogeno), ripetendosi altre mille volte. Un altro mese ancora, ed era riapparsa a due distinte frequenze: quella metà e quella doppia della precedente mille volte ciascuna. E successivamente Vargas l’aveva scoperta nella banda delle frequenze ottiche, trasmessa con un intenso fascio laser a 5000 ångström. E la configurazione era sempre rimasta la stessa; un grappolo di brevi impulsi informativi: 2…4…1…2…5…1…3…1. Ogni sottogruppo di bit era separato dall’altro per mezzo di un’interruzione perfettamente rilevabile; una pausa più lunga separava ogni ripetizione del gruppo di impulsi.
Non poteva trattarsi che di un messaggio. Per Krug la sequenza 2-4-1-2-5-1-3-1 era divenuta un numero sacro: il primo simbolo di una nuova Cabala. Non solo se n’era imblasonato la parete dell’ufficio: poteva farsi sussurrare a comando la registrazione del segnale delle stelle, su diverse frequenze acustiche, e, inoltre, la scultura a fianco della scrivania era stata predisposta per emettere tutta la sequenza con pulsazioni abbaglianti di luce coerente.
Quel segnale era la sua ossessione. Tutto il suo universo faceva perno su quella domanda in attesa di risposta. Di notte levava gli occhi alle stelle, si faceva stordire dal loro allucciolio e lanciava lo sguardo alle galassie, pensando: “Sono Krug. Sono io, Krug! Sono qui che aspetto. Parlatemi ancora!”. Era sicurissimo che il segnale delle stelle fosse un tentativo cosciente di comunicazione: l’altra possibilità non voleva neppure prenderla in considerazione. E aveva dedicato tutta la sua immensa fortuna al compito di rispondere.
“Non è possibile che il segnale sia un fenomeno naturale?”
No. La regolarità con cui arriva, nonostante la diversità delle frequenze usate, dimostra la presenza di un’entità intelligente. C’è qualcuno che vuol comunicarci qualcosa.
“E che significato possono avere quei numeri? Sono una specie di pi greco della Galassia?”
Non abbiamo trovato nessuna relazione matematica semplice. Non costituiscono una successione aritmetica identificabile. I crittografi hanno avanzato una cinquantina di suggerimenti tutti molto seducenti, ma la stessa quantità dei suggerimenti li rende tutti ugualmente sospetti. La nostra impressione è che quei numeri siano stati scelti assolutamente a caso.
“Non vedo lo scopo di un messaggio senza un contenuto comprensibile.”
Il messaggio stesso è il suo contenuto: un grido da una galassia all’altra. Ci dice: Ehi, siamo qui; sappiamo come trasmettere. Siamo capaci di ragionare, e vogliamo entrare in contatto con voi.
“Sempre che lei abbia ragione, cosa conta di dire, come risposta?”
Conto di dire: Pronto, pronto, vi abbiamo sentito, abbiamo ricevuto il messaggio, vi salutiamo! Siamo intelligenti anche noi. Siamo esseri umani. Non vogliamo più essere soli nell’universo.