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La folla brontola in modo poco rassicurante.

Già li immagino rivoltarsi contro di noi, strapparci i vestiti, scoprire la peluria dell’umano sotto il mio travestimento alfa. Le distanze sociali non ci proteggerebbero più.

Dai, dico a Lilith, andiamo via. Ne ho abbastanza.

No, aspetta.

Si volta verso i gamma. Alza le braccia, volge le palme all’interno, mezzo metro tra l’una e l’altra: come se volesse mostrare la dimensione di un pesce che ha preso. Poi si piega sulle ginocchia in un modo molto strano, facendo percorrere al corpo una specie di movimento a vite. Quel gesto ha il potere di calmare immediatamente la folla. I gamma fanno un passo indietro, chinano la testa umilmente al nostro passaggio. Nessun pericolo.

Adesso basta, dico a Lilith. Si sta facendo tardi. Siamo qui da un mucchio di tempo.

Sì, adesso andiamo.

Passiamo per un labirinto di gallerie. Ci sfiorano gamma di mille orribili forme. Vediamo drogati ondeggiare nella loro lentissima estasi. Scarti. Piastre e solidificazioni, per quanto posso comprendere. Rumori, odori, colori, superfici… — mi acciecano e mi stordiscono. Voci lontane. Canzoni. 

«Spunta l’alba della libertà Spunta l’alba della libertà Desta lo slungo, arma lo sgrugo Sali alla libertà!»

 Scalini. Saliamo. Vento freddo dalla superficie. Ansanti, saliamo ancora e ci troviamo nelle stradine curve e acciottolate di Gamma Town, probabilmente a pochi metri di distanza dall’androne da cui siamo discesi. Mi pare che lo studio di Alfa Poseidon Moschettiere sia giusto dietro l’angolo.

È scesa la notte. Le luci di Gamma Town esitano e scoppiettano. Lilith vuole portarmi in una taverna. No. Torniamo a casa. Basta. Ho la mente sconvolta dalle immagini del mondo androide. Lei cede; usciamo di corsa. Quanto dista, il trasmat più vicino?

Salto trasmat. Ora il suo appartamento: così accogliente e luminoso… Ci spogliamo. Sotto il doppler, mi tolgo la vernice rossa e lo spray termico.

E stato interessante?

Fin troppo, le dico. E devi ancora spiegarmi varie cose, Lilith.

Mi tornano alla mente alcune scene. Friggo.

E mi raccomando, continua lei, non dire a nessuno che ti ho portato. Mi metteresti nei pasticci.

Puoi starne sicura. Strettamente confidenziale.

Vieni qui, Alfa Saltatore.

Manuel.

Manuel. Vieni qui.

Prima dimmi il significato di quelle frasi Krug sia.

Dopo. Ho freddo. Scaldami, Manuel.

La stringo tra le braccia. Il contatto del suo seno m’infiamma. Le copro la bocca con la mia. Le spingo la lingua fra i denti. Scivoliamo insieme sul pavimento.

Senza esitare, la penetro. Trema. Mi stringe.

Quando chiudo gli occhi, vedo drogati di slungo, scarti e piastre.

Lilith.

Lilith.

Lilith.

Lilith ti amo ti amo ti amo ti amo Lilith Lilith.

La grande vasca gorgoglia. Ne scaturiscono mostruosità scarlatte e umidicce. Risa. Fragore di tuono. Sgrugo schifoso, secca è la tua vasca! La mia carne batte sulla sua. Plit! Plit! Plit! Plit! Plac! Con umiliantissima rapidità, l’estenuato Levitico Saltatore versa un milione di figli nello sterile ventre dell’amata.

26

9 gennaio 2219

La torre ha toccato i 940 metri, e pare alzarsi più in fretta che mai. Chi si sofferma alla base e ne percorre l’altezza con lo sguardo non riesce facilmente a discernerne la sommità: la cima si perde sullo sfondo abbagliante del cielo invernale. In questa stagione, alla latitudine del cantiere, la giornata dura solo poche ore: in queste ore i raggi solari tracciano solchi infocati per tutta la lunghezza del fuso abbagliante della torre.

Nella metà inferiore della costruzione, buona parte delle strutture interne sono già in funzione. Sono stati posati i primi tre moduli ad alta capacità dell’apparato di comunicazione: tetre sagome di metallo scuro, lunghe cinquanta metri, che contengono le vaste unità acceleratrici che amplificheranno i messaggi ascendenti lungo la torre. Visti da lontano, quei moduli paiono grandi semi maturi, rinserrati in un enorme baccello cristallino e pellucido.

La frequenza degli infortuni è sempre alta. Il tasso di mortalità comincia a destare preoccupazioni. Sono particolarmente gravi le perdite gamma, ma il morale dei lavoratori risulta ancora buono: gli androidi lavorano con slancio, si direbbero coscienti del loro ruolo essenziale in uno dei più ambiziosi progetti dell’umanità. Se il loro atteggiamento continuerà a essere così positivo, la torre sarà pronta prima della data preventivata.

27

Dopo avere mostrato agli ospiti del giorno i progressi nei lavori alla torre, Krug li invitò a cena al Nemo Club, dove veniva tenuto sempre a sua disposizione un séparé. Quel ritrovo era una delle imprese Krug di minore importanza; l’aveva costruito una decina d’anni prima, e per vari anni era stato il locale più rinomato di tutta la Terra, tanto che occorreva prenotare i tavoli con sei mesi d’anticipo. Era situato alla profondità di 10.000 metri sotto il Pacifico occidentale, nella Fossa di Challenger, ed era composto di quindici sfere pressurizzate, dalle cui pareti (costituite dello stesso vetro robusto che ora serviva per costruire la torre) si potevano ammirare gli strani abitanti delle tenebre abissali.

Gli accompagnatori di Krug erano: il senatore Henry Fearon e suo fratello Lou, l’avvocato, della Fearon Doheny; Franz Giudice dell’Eurotrasmat; Leon Spaulding; e Mordecai Salah al-Din, Presidente della Camera al Parlamento Mondiale. Per giungere al Nemo Club si erano dovuti recare per trasmat all’isola di Yap nelle Caroline micronesiane, dove erano saliti su un modulo d’immersione del tipo impiegato nell’esplorazione di Giove e Saturno. La densità del mezzo rendeva impossibile, sott’acqua, la trasmissione trasmat. La pressione oceanica, invece, non preoccupava affatto il modulo d’immersione, che, a una tranquilla velocità di 750 metri al minuto, era sceso in fondo al Pacifico ed era entrato nel boccaporto pressurizzato del Nemo Club.

L’abisso era inondato da un’illuminazione a tappeto. La fauna abissale prestava poca attenzione alla luce, e si avvicinava liberamente alle pareti trasparenti del club: pesci fragili e inconsistenti, privi di muscoli, corpi flosci e cascanti, tessuti zuppi d’acqua alla pressione di dieci tonnellate per centimetro quadro. Molti di quei pesci erano luminescenti; lucori pallidi e freddi ammiccavano dai fotofori della linea laterale o della fronte, o dalle lanterne pendule e carnose che sporgevano dalla punta del muso. La lunghezza d’onda delle luci del club era stata scelta accuratamente perché non disturbasse la luminescenza dei pesci: i loro piccoli fari erano perfettamente visibili, anche in quel chiarore brillante; Justin Malinotti, l’architetto della torre, era anche il progettista del Club, e Malinotti aveva il gusto dei particolari. Gli strani mostriciattoli venivano fin quasi a toccare le pareti: forme nere, brune, rosso cupo e viola. Molti avevano mandibole disarticolate, bocca capace di spalancarsi fin sul petto, pronta a ingoiare nemici due o tre volte più grossi. Nelle capricciose tenzoni dell’abisso, i pigmei divoravano i giganti. Ai clienti del club era offerto uno spettacolo a base di demoni e di orrori in miniatura, circonfusi di un alone sinistro, armati di denti crudeli e di fauci smisurate, forniti di un codazzo di strane protrusioni e di ancor più strane appendici, di occhi gonfi come globi o occhi peduncolati, o privi del tutto di occhi. Per ammirare bestie straordinarie non occorreva recarsi su mondi lontani; le creature degli incubi erano qui, sul pianeta natale dell’uomo: bastava solo dare un’occhiata fuori. Enormi spine, denti ricurvi e talmente lunghi che la bocca non poteva chiudersi mai, gnigni da cui spuntavano steli ramificati, esseri tutto denti e niente corpo, altri esseri tutto corpo e niente testa, pescatori con canne e lenze ondeggianti che emanavano pulsazioni gialle, azzurre e verdi, mascheroni di mille tipi. Ogni singolo pesce non superava il mezzo metro di lunghezza: uno spettacolo eccezionale, assolutamente unico.