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Krug, tormentato, allargò le braccia verso Vargas. — Come vorrei poterlo credere!

— E allora credici. Io ci credo.

— Ma si tratta solo di una teoria. Una teoria campata in aria!

— Eppure si accorda benissimo con i dati che possediamo — lo rincuorò Vargas. — Non hai mai sentito quel vecchio detto: “Se non è vero, è ben trovato”? Come ipotesi di lavoro, può esserci utile finché non ne avremo una migliore. Spiega i fatti molto meglio di quanto non possa farlo l’altra, e cioè che quei segnali complessi, ripetuti, su varie frequenze, abbiano origine spontanea.

Volgendo le spalle a Vargas, Krug calò un colpo violento sull’interruttore del proiettore, come se non potesse più soffrire l’immagine sulla cupola, come se si fosse sentito ferire la pelle dalle tumultuose radiazioni di quel sole estraneo, mortale. Nei suoi sogni l’immagine era stata ben diversa. Aveva pensato al pianeta di un sole giallo, in qualche punto del cielo a ottanta, novant’anni luce dalla Terra: un sole gentile e carezzevole, simile a quello sotto cui era nato lui. Aveva sognato un mondo di laghi e di fiumi e di grandi distese erbose, di aria profumata dal vaghissimo sentore di ozono, di alberi dalle foglie rosse e di insetti verdi e lucidi, di creature snelle ed eleganti dalle spalle sottili, con molte dita alle mani. Creature dalla voce saggia e pacata, che discorrevano amabilmente mentre passeggiavano per vallate e boschetti di quel paradiso, che sondavano i misteri del cosmo tessendo speculazioni sull’esistenza di altre civiltà, e che infine mandavano all’universo il loro messaggio. Li aveva visti spalancare le braccia ai primi visitatori della Terra ed esclamare: Benvenuti, fratelli, benvenuti; sapevamo che dovevate esserci anche voi. E ora tutta quella dolce visione era calpestata, distrutta. Con l’occhio della mente, ora Krug si raffigurava un infame sole azzurro che lanciava contro il vuoto le sue fiammate demoniache; scorgeva un pianeta calcinato e rovente, dove mostri squamosi e corazzati strisciavano in paludi d’argento vivo, sotto un ostile cielo incandescente. Una masnada di orrori, attruppata vicino a una macchina d’incubo, che mandava al di là del vuoto dello spazio un messaggio incomprensibile. E sarebbero nostri fratelli? Che gusto ci può essere, si chiedeva tetramente Krug.

— Ormai — confessò deluso — con che cuore potremmo recarci da loro? Con che cuore potremmo abbracciarli? Sai, Vargas, ho una nave quasi pronta: una nave stellare, capace di trasportare un dormiente per centinaia d’anni. Ma non oso più mandarla in un posto simile.

— Mi stupisce vederti reagire così. Non mi aspettavo una simile angoscia da parte tua.

— E io non mi aspettavo una stella come quella.

— Perché, preferivi sentirti dire che i segnali erano solo degli impulsi naturali?

— No. No.

— E allora accetta con gioia questi nostri strani fratelli: dimentica le differenze che li rendono strani ai nostri occhi e pensa solo alla fratellanza che ci accomuna.

Le parole di Vargas fecero presa: gli diedero forza. L’astronomo aveva ragione. Per quanto diversi fossero quegli esseri, per quanto stravagante apparisse il loro mondo (sempre che l’ipotesi di Vargas corrispondesse al vero) si trattava di creature civili, scientifiche, aperte alle altre forme di vita intelligente. Nostri fratelli. Se domani lo spazio si dovesse ripiegare su se stesso, inghiottendo il Sole, la Terra e i pianeti vicini e scaraventandoli nell’oblio, l’intelligenza non scomparirebbe dalla faccia del cosmo, perché ci sarebbero loro.

— Sì — disse infine Krug — li accetto. Con gioia. Quando la torre sarà terminata invierò il mio saluto.

Erano trascorsi due secoli e mezzo da quando l’uomo si era svincolato per la prima volta dal pianeta natale. In un singolo, grande, dinamico impulso, la sete degli spazi aveva portato gli esploratori dalla Luna a Plutone, al bordo del sistema solare, senza tuttavia mai incontrare vita intelligente. Licheni, batteri, creature striscianti dei phylum più bassi: questi sì, ma nulla di più evoluto. Solo la delusione aveva arriso agli archeologi che fantasticavano di ricostruire le fasi della civiltà marziana da manufatti trovati nel deserto. Quei manufatti non c’erano mai stati. E quando erano partite anche le sonde stellari per viaggi di decine d’anni verso i sistemi solari più vicini, esse erano poi ritornate con… niente. Nella sfera di quindici anni luce dal Sole, così testimoniavano le prove raccolte, non era mai esistita forma di vita superiore a quella dei proteinoidi del Centauro, che tutt’al più potevano fare invidia alle amebe.

Krug era un giovanotto, all’epoca in cui erano ritornate le prime sonde. Gli era spiaciuto vedere come molti, sulla Terra, avessero preso a filosofeggiare sull’insuccesso della ricerca di vita intelligente sugli astri più prossimi. Che cosa dicevano, quegli apostoli del nuovo geocentrismo?

«Noi siamo gli eletti!»

«Noi siamo i figli unigeniti di Dio!»

«Solo su questo mondo, e su nessun altro, il Signore forgiò il suo popolo!»

«Spetta a noi l’universo, per eredità divina!»

In quel tipo di idee, Krug ravvisava la paranoia.

Non aveva mai pensato a Dio. Ma gli sembrava che gli uomini pretendessero troppo dall’universo, quando affermavano che il miracolo dell’intelligenza aveva avuto il permesso di sorgere solo su questo piccolo pianeta di un piccolo sole. Esistevano miliardi e miliardi di soli; esisteva un’infinità di mondi. Com’era possibile che l’intelligenza non si fosse evoluta innumerevoli e innumerevoli volte in quegli infiniti mari di galassie?

E gli sembrava assurdo, megalomane il tentativo di far assurgere a dogma assoluto gli scarsi, provvisori risultati di una ricerca sulla distanza di quindici anni luce. Che davvero fosse solo, l’uomo? E chi poteva dirlo? Fondamentalmente, Krug era un razionalista. Cercava di mantenere ogni cosa nella giusta proporzione. E sentiva che la continuità della salute mentale, per la razza umana, richiedeva di destarsi dal sogno di unicità, perché quel sogno, certamente, era destinato a terminare: se il risveglio fosse giunto troppo tardi, la razza umana ne avrebbe subito una mazzata insuperabile.

— Quando sarà pronta la torre? — chiese Vargas.

— Tra due anni. Forse alla fine del prossimo, se avremo fortuna. Hai visto stamattina l’appoggio che do alla costruzione: stanziamenti illimitati. — Krug si aggrottò. Bruscamente, si era sentito inquieto. — Dimmi la verità. Anche tu, anche tu che hai passato tutta la vita ad ascoltare la voce delle stelle, non pensi anche tu che Krug sia un po’ pazzo?

— Niente affatto!

— E invece sì. Lo pensano tutti. Mio figlio Manuel, per esempio, pensa che dovrei venire chiuso in manicomio, anche se ha paura di dirmelo. E Spaulding, qui sotto: anche lui. Tutti, tutti, anche Thor Guardiano, probabilmente, ed è proprio lui a costruirmi quell’accidenti di torre. Vorrebbero sapere cosa penso di ricavarci. Perché butto miliardi di dollari in una torre di cristallo. Anche tu, Vargas!

Il volto teso di Vargas divenne ancor più stiracchiato. — No: nutro la massima comprensione per il tuo progetto. Questi sospetti mi fanno male. Perché, non credi che entrare in contatto con una civiltà extrasolare abbia altrettanta importanza per me quanto per te?

— Certo: per te ha il diritto di essere importante. Si tratta del tuo campo, dei tuoi studi. Ma io? Io sono un uomo d’affari. Costruttore di androidi. Proprietario terriero. Capitalista; sfruttatore, magari un po’ un chimico, questo sì, e conosco la genetica, ma non sono un astronomo, non sono uno scienziato. Non è un po’ pazzo, Vargas, che mi dedichi a una cosa come questa? Spreco di beni. Investimento non produttivo. Che tipo di dividendi può fruttarmi NGC 7293 eh? Dimmi, dimmi.