La porta attigua era semiaperta. Sbirciai dentro poi entrai, e mi richiusi il battente alle spalle.
Un uomo era seduto davanti a una piccola scrivania che reggeva un enorme portacenere, molta polvere e quasi nient'altro. Era basso e tarchiato.
Sotto al naso aveva una specie di spazzolino, scuro e irsuto, lungo due centimetri abbondanti. Mi sedetti di fronte a lui e posai il mio biglietto da visita sul piano della scrivania.
Lui lo prese senza emozione, lo lesse, lo volto, e lesse il retro con la stessa attenzione. Non c'era assolutamente nulla da leggere, dietro. Poi prese un mezzo sigaro, dal portacenere, e si scotto il naso accendendolo.
– Qualcosa che non va? – mi chiese con un brontolio sordo.
– Va tutto bene. Siete Flack?
Non si prese il disturbo di rispondere. Mi incollo addosso uno sguardo, che avrebbe potuto nascondere i suoi pensieri o anche no, sempre che avesse avuto dei pensieri.
– Vorrei saper qualcosa d'uno dei vostri clienti – dissi.
– Nome? – chiese Flack, senza entusiasmo.
– Non so che nome abbia usato, qui. Sta nella camera trentadue al terzo piano.
– Che nome usava, prima di venir qui? – volle sapere Flack.
– Non so nemmeno quello.
– Be', che aspetto ha? – Flack era pieno di sospetti, ora. Rilesse il mio biglietto da visita, ma non apprese niente di nuovo.
– Non l'ho mai visto, ch'io sappia.
– Devo aver lavorato troppo – dichiaro il mio collega. – Non arrivo a capire.
– Mi ha telefonato – spiegai. – Ha detto che voleva vedermi.
– Ve lo impedisco, forse?
– Datemi retta, Flack. Nel nostro mestiere ci si fanno dei nemici, alle volte. Dovreste saperlo. Ora, questo tizio ha un incarico da darmi. Mi dice di venire qui, si dimentica di dirmi come si chiama e mette giu il telefono.
Cosi ho pensato di fare un piccolo controllo, prima di salire.
Flack si tolse il sigaro di bocca, e sospiro con aria paziente:
– Sono in condizioni disastrose. Non ho ancora capito. Niente ha piu senso, per me.
Mi chinai sulla scrivania, e dissi adagio, molto chiaramente:
– Tutta la faccenda potrebbe essere un sistema pratico ed efficace per attirarmi in una camera d'albergo, farmi la pelle e poi uscire tranquillamente dalla comune. Voi non vorreste che una cosa simile accadesse al vostro albergo, vero, Flack?
– Ammesso che la cosa mi interessi – fece lui. – Siete proprio convinto d'esser cosi importante?
– Fumate quel pezzo di vecchia gomena perche vi piace o perche credete che vi dia un'aria coriacea?
– Per quarantacinque dollari alla settimana, come faccio a fumare qualcosa di meglio? – domando Flack, e mi fisso intensamente.
– Niente conto spese – l'informai. – Non ho ancora fatto l'affare.
Lui emise un'esclamazione di tristezza, si alzo stancamente e usci dalla stanza. Accesi una sigaretta e aspettai. Flack torno di li a poco e lascio cadere sulla scrivania una schedina di registrazione. Sopra c'era scritto, a inchiostro, da una mano ferma e tondeggiante: Dr. G. W. Hambleton. El Centro. California. L'impiegato aveva preso nota di altre cose, ivi compreso il numero della camera e la retta giornaliera. Flack mi indico qualcosa, con un dito che aveva gran bisogno d'una manicure, o almeno di uno spazzolino per le unghie.
– E arrivato alle due e quarantasette pomeridiane – annuncio. – Proprio oggi, insomma. Non c'e ancora segnato niente sul suo conto. Ha pagato la retta di un giorno. Niente telefonate. Niente di niente. Che cosa volete?
– Che aspetto ha?
– Non l'ho visto. Credete che me ne stia fuori, vicino al banco e prenda fotografie di tutti i clienti che si presentano?
– Grazie – dissi. – Dottor G. W. Hambleton, El Centro. Molto obbligato. – E gli restituii la schedina.
– Qualsiasi informazione vi occorra, se posso… – disse Flack mentre uscivo – non dimenticatevi dove vivo. Cioe, se per voi questa e vita.
Accennai di si e me ne andai. Capitano, i giorni cosi. Tutti quelli che si incontrano sono suonati. Finisce che ci si guarda nello specchio e ci si domanda…
La camera trentadue era sul retro dell'edificio, vicino alla porta della scala di soccorso. Il corridoio che vi conduceva puzzava di tappeti vecchi, di olio da mobili e della tetra anonimita di mille vite meschine. Il secchiello di sabbia, sotto all'estintore era pieno di mozziconi di sigari e sigarette, una collezione che risaliva a parecchi giorni. Da uno sfiatatoio aperto veniva la musica assordante di una radio. Dietro un altro sfiatatoio alcune persone ridevano da farsi venire le convulsioni. In fondo, nelle vicinanze della camera trentadue tutto era tranquillo.
Bussai: due colpi lunghi e due brevi, secondo le istruzioni. Non accadde nulla. Mi sentivo vecchio e sfinito. Mi sentivo come se avessi passato tutta la vita a bussare alle porte degli alberghi di quart'ordine, dove nessuno si prendeva il disturbo di aprire. Riprovai a bussare. Poi girai la maniglia ed entrai. Una chiave, con un cartellino rosso di fibra era infilata nella toppa, dalla parte interna.
Ero in una piccola anticamera, con uno stanzino da bagno sulla destra.
Oltre l'anticamera si intravedeva la meta superiore di un letto, con un uomo che dormiva, in calzoni e maniche di camicia.
– Il dottor Hambleton? – chiesi ad alta voce.
L'uomo non rispose. Oltrepassai la porta del bagno, per andargli vicino.
Un'ondata di profumo mi investi, ed io feci per voltarmi, ma troppo tardi.
Una donna, che era stata nascosta nella stanza da bagno era apparsa improvvisamente, reggendosi un asciugamano davanti alla parte inferiore del viso. Sopra l'asciugamano un paio di occhiali neri. Poi l'ala di un cappello di paglia a larghe tese, di un color azzurro pervinca un po' smorzato. Sotto la tesa una massa di capelli biondi, rigonfi. Due orecchini a bottone azzurri scintillavano in un punto imprecisato, nell'ombra. Gli occhiali da sole avevano una montatura bianca con le stanghette piatte, molto larghe. L'abito era della stessa sfumatura del cappello. Sopra, la ragazza indossava un soprabito di seta o di rayon ricamato, aperto. Portava un paio di guanti piuttosto lunghi, e nella mano destra, stringeva un'automatica. Coll'impugnatura di osso bianco. Pareva una trentadue.
– Voltatevi e portate le mani dietro la schiena – ordino, da dietro l'asciugamano. La voce, soffocata dalla stoffa, non significava niente, per me, come gli occhiali neri. Non era la voce che mi aveva parlato al telefono. Non mi mossi.
– Non crediate che scherzi – continuo la ragazza. – Vi do esattamente tre secondi per obbedirmi.
– Non potreste fare un minuto? Mi piace guardarvi.
Lei fece un gesto minaccioso con la rivoltella.
– Voltatevi – comando. – E alla svelta.
– Anche la vostra voce mi piace.
– Benissimo – fece in tono pericoloso. – Se preferite cosi, e affar vostro.
– Non dimenticatevi che siete una signora – dissi e mi voltai, portandomi le mani alle spalle. La bocca della pistola mi premette contro la nuca.
Il fiato della ragazza mi sfiorava, per poco non mi faceva il solletico. Il suo profumo era di una marca elegante: non forte, ma deciso. La rivoltella si scosto dal mio collo e, per un istante, una fiamma candida mi arse negli occhi. Emisi un gemito soffocato, caddi carponi e portai rapidamente le mani all'indietro. Le mie dita sfiorarono una gamba inguainata di nylon, ma scivolarono via subito, e mi parve un peccato. Al tatto la si sarebbe detta una bella gamba. Una seconda botta in testa cancello ogni piacere da questa esperienza ed io emisi il gemito rauco di un uomo in condizioni disperate. Mi afflosciai sul pavimento. La porta si aperse. Una chiave tintinno. La porta si chiuse. La chiave giro. Silenzio.
Mi alzai e passai nello stanzino da bagno. Mi inumidii la nuca con un asciugamano intriso d'acqua fredda. Avevo l'impressione di esser stato colpito col tacco d'una scarpa. Certo non era stato il calcio di una rivoltella. Il taglio aveva sanguinato un poco, ma non gran che. Sciacquai l'asciugamano e rimasi impalato, a tastarmi l'escoriazione e a chiedermi come mai non avessi rincorso la ragazza urlando. Ma piu che altro stavo fissando l'armadietto farmaceutico, sopra il lavabo. La parte superiore di un barattolo di talco era stata scalzata via. – C'era talco su tutto il piano della mensola. Un tubo di dentifricio era stato sventrato. Qualcuno era andato in cerca di qualche cosa.