Forse sono un ectoplasma con una licenza d'investigatore privato. Forse diventiamo tutti cosi, in questo mondo freddo, illuminato solo a meta, dove accadono sempre le cose sbagliate, e mai quelle giuste.
Malibu. Altre dive del cinema. Altre vasche da bagno rosa e azzurre. Altri letti trapunti. Altro Chanel Numero Cinque. Altre Lincoln, Continental e Cadillac. Altre capigliature rigonfie, e occhiali neri, e pose e voci pseudo raffinate e moralita da taverna di porto. Ma no, un momento. Molte brave persone lavorano nel cinema. L'hai presa sbagliata, Marlowe, non sei umano, questa sera.
Sentii l'odore di Los Angeles, prima d'arrivarci. Era l'odore vecchio e stantio d'un salotto buono che e rimasto chiuso per troppo tempo. Ma le luci colorate avrebbero ingannato chiunque. Le luci erano meravigliose. Dovrebbero fare un monumento all'uomo che ha inventato le luci al neon. Un monumento alto quindici piani, tutto di marmo. Perche, effettivamente e un ragazzo che ha creato qualcosa dal nulla.
Cosi andai al cinema, e doveva proprio capitarmi un film con Mavis Weld. Uno di quei polpettoni con cristalli e cromature, dove tutti sorridevano troppo, parlavano troppo e lo sapevano. Le donne non facevano che salire lunghi scaloni ricurvi, per andare a cambiarsi d'abito. Gli uomini non facevano che tirar fuori sigarette monogrammate da astucci di lusso e accendersele l'un l'altro con accendisigari di lusso. E la servitu si era fatta la gobba, a forza di portare vassoi di bibite lungo la terrazza fino a una piscina che aveva le dimensioni del lago Huron ma era molto piu pulita.
Il primattore era un amabile guitto, carico d'un fascino che pian piano stava diventando rancido. La diva era una bruna arrogante, dagli occhi dispettosi che, in un paio di cattivi primi piani, mostrava i segni dei suoi sforzi erculei per tener lontana la cinquantina. Mavis Weld aveva il ruolo della seconda donna e lo sosteneva col silenziatore. Era brava, ma avrebbe potuto esserlo dieci volte di piu. Ma se fosse stata dieci volte piu brava meta delle sue scene sarebbe stata tagliata per proteggere la diva. Era un'impresa da equilibrista, la sua, una delle migliori cui avessi mai assistito.
Ebbene, d'ora in avanti Mavis Weld non avrebbe piu fatto dell'equilibrismo su un cavo regolare. Su una corda da pianoforte, l'avrebbe fatto. Una corda tesa molto in alto. E non ci sarebbe stata una rete, sotto.
CAPITOLO XIII
Avevo una ragione, per tornare in ufficio. Un espresso che conteneva uno scontrino color arancio doveva esser gia arrivato a destinazione, ormai. La maggior parte delle finestre del palazzo erano buie, ma non tutte.
In parecchi mestieri, oltre al mio, si lavora di notte. L'uomo dell'ascensore tiro fuori un "salve" dal fondo della gola, e mi porto al mio piano. Nel corridoio c'erano varie porte aperte, illuminate, dietro le quali le donne di servizio stavano ancora spazzando i detriti delle ore perdute. Voltai l'angolo, accompagnato dal ronzio bavoso d'un aspirapolvere entrai nell'ufficio buio e apersi le finestre. Rimasi seduto alla scrivania senza far nulla, senza nemmeno pensare. Niente espresso. Tutti i rumori del palazzo, all'infuori dell'aspirapolvere, parevan esser scesi fluttuando nella strada ed essersi persi nel volgere di innumerevoli ruote. Poi, in un punto imprecisato del vestibolo esterno un uomo comincio a fischiettare Lili Marlene, con eleganza e virtuosismo. Sapevo chi era. Il guardiano notturno che controllava le porte degli uffici. Accesi la lampada da tavolo, e lui passo, senza controllare la mia. I suoi passi s'allontanarono, poi ritornarono con un suono diverso, piu strascicato. Trillo il campanello della sala d'aspetto, che era ancora aperta. Doveva essere l'espresso. Andai fuori a prenderlo. Solo che non era l'espresso.
Un grassone in calzoni azzurro cielo stava chiudendo la porta con la magnifica flemma che solo i grassi riescono a raggiungere. Non era solo, ma al primo momento guardai solo lui. Era un uomo di proporzioni generose.
Ne giovane ne bello. Pero aveva un'aria solida. Sopra ai pantaloni di gabardine portava una giacca da riposo a due colori, che sarebbe stata rivoltante su una zebra. Il colletto della camicia giallo-canarino era tutto aperto, ma non poteva essere diversamente se doveva permettere a un collo di quelle dimensioni di spuntar fuori. L'uomo era a capo scoperto, e il suo grosso cranio era decorato con una ragionevole quantita di capelli color salmone pallido. Il naso era stato rotto e rimesso a posto, molto bene, ma, in ogni caso, non era mai stato un esemplare da esposizione.
Insieme al grassone c'era una creatura sparuta con gli occhi rossi e il naso intasato. Circa vent'anni, statura uno e ottanta, esile come una canna da pesca. Aveva un tic al naso, uno alla bocca, uno alle mani, e pareva molto infelice. Il grassone mi sorrise con aria brillante.
– Il signor Marlowe, vero?
– E chi altri? – chiesi.
– E un po' tardi, per una visita d'affari – dichiaro lui e aperse le mani, nascondendomi mezzo ufficio. – Spero che non ve ne abbiate a male. O forse siete troppo impegnato per accettare altri incarichi?
– Non prendetemi in giro. Ho i nervi a pezzi – dissi. – Chi e il vostro amico?
– Vieni avanti Alfred – ordino il grassone al suo compagno. – E smettila di comportarti come una ragazzina.
– Col cavolo – borbotto Alfred.
L'omone si rivolse a me, con aria placida.
– Perche tutti i pivellini continuano a dire cosi? Non e divertente. Non e spiritoso. Non significa niente. Un bel problema, Alfred. Sono riuscito a fargli smettere la polverina. Temporaneamente, almeno. Di "tanto piacere" al signor Marlowe, Alfred.
– S'impicchi – disse Alfred.
Il grassone sospiro.
– Mi chiamo Toad – annuncio. – Joseph P. Toad.
Non feci commenti.
– Avanti, ridete – mi invito. – Ci sono abituato. Mi porto dietro questo nome da quando son nato. – Venne verso di me, con la mano tesa. La presi e lui mi guardo negli occhi, sorridendo amabilmente. – Benissimo, Alfred – disse senza voltarsi. Alfred esegui quel che mi parve un gesto molto vago e insignificante alla fine del quale mi trovai una grossa automatica puntata addosso.
– Attenzione Alfred – ordino il grassone tenendo la mia mano in una stretta che avrebbe piegato una putrella. – Non ancora.
– Col cavolo – dichiaro Alfred.
La pistola puntava contro il mio petto. Il dito del ragazzo si irrigidi intorno al grilletto. Io lo guardai contrarsi. Sapevo di preciso, al secondo, quando la pressione avrebbe fatto scattare il cane. Ma mi pareva che non facesse nessuna differenza. Tutta quella scena stava accadendo altrove, in un film di quart'ordine. Non accadeva a me.
Il cane dell'automatica scatto, con un minorino secco, sul nulla. Alfred abbasso la pistola con un verso di disappunto, e l'arma spari, per dove era venuta. Il ragazzo comincio di nuovo coi suoi tic. Non vi era stata ombra di nervosismo, nel suo modo di manovrare la rivoltella. Mi domandai quale stupefacente avesse cessato di prendere.
Il ciccione mi lascio libera la mano, sempre con lo stesso sorriso cordiale sul viso rubicondo. Si diede una pacca su una tasca.
– Ce l'ho io, il caricatore – spiego. – C'e stato poco da fidarsi, di Alfred, ultimamente. Magari vi avrebbe sparato, quella carognetta.
Alfred si sedette su una sedia, l'inclino, contro il muro, e si mise a respirare per la bocca.
Io riportai i calcagni sul pavimento.
– Scommetto che vi ha spaventato – disse Joseph P. Toad.
Sentivo un sapore di sale, sulla lingua.
– Non siete poi cosi coriaceo – affermo Toad, piantandomi un dito polposo nello stomaco.