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– Ben difficilmente – convenni. – E piantatela di cercar di farmi morire di paura.

– Ma ne aveva davvero uno, amico. Piegato in quattro, nel taschino dell'orologio dei calzoni. Sulle prime non ce n'eravamo accorti.

– Ho dato un biglietto a Flack – dichiarai, con le labbra rigide.

Vi fu una pausa di silenzio. Sentivo sullo sfondo delle voci e il ticchettio di una macchina da scrivere. Finalmente French disse, in tono asciutto.

– Abbastanza plausibile. Arrivederci a piu tardi – e mise giu il ricevitore di scatto.

Deposi il ricevitore anch'io, molto lentamente sulla forcella e sgranchii le dita che parevano irrigidite da un crampo. Abbassai gli occhi e fissai la fotografia, davanti a me. Ma mi diceva soltanto che due persone, una delle quali mi era nota, facevano colazione al ristorante Alle Danze. E il giornale sul tavolo mi diceva la data, o per lo meno me l'avrebbe detta.

Chiamai il "News Chronicle" e chiesi la redazione sportiva. Quattro minuti dopo scrivevo su un blocco d'appunti: Ritchy Belleau, giovane e popolare mediomassimo e morto all'Ospedale delle Buone Sorelle poco prima di mezzanotte 19 febbraio, in seguito a ferite riportate sul ring la sera prima durante il combattimento principale di un torneo all'Hollywood Leguon Stadium. La notizia con titolo a tutta pagina e stata data dall'edizione sportiva di mezzogiorno del "News Chronicle" del 20 febbraio.

Chiamai di nuovo lo stesso numero, e chiesi di Kenny Haste, in cronaca.

Kenny era un ex reporter di nera, che conoscevo da anni. Parlammo del piu e del meno per qualche minuto, poi io domandai.

– Chi ha seguito l'assassinio di "Sole" Moe Stein, da voi?

– Tod Barrow. E passato al "Sun Despatch" da un po'. Perche?

– Vorrei i particolari, se ce ne sono.

Kenny disse che sarebbe passato in archivio a vedere, e mi avrebbe richiamato, cosa che fece di li a dieci minuti.

– Gli hanno sparato due revolverate nella testa, mentre era fermo nella sua macchina a circa due isolati dal Chateau Bercy, in Franklin Avenue.

Ora: undici e un quarto pomeridiane circa.

– Data: venti febbraio corrente anno – dissi. – O mi sbaglio?

– Tutt'altro. E esattissima. Nessun testimone oculare e nessun arresto, a parte la solita banda di allibratori, agenti di pugilato disoccupati e altri sospetti di professione cari alla polizia. Che cosa c'e sotto?

– Non si mormorava che un amico di Moe fosse in citta, circa in quel periodo?

– Qui non ne sa niente nessuno. Di chi si tratta?

– "Frigna Moyer". Un poliziotto mio amico m'ha detto qualcosa a proposito d'un riccone di Hollywood fermato per sospetti, e poi rilasciato per mancanza di prove.

– Aspetta un momento – esclamo Kenny. – Mi sta tornando in mente qualcosa… si. Un certo Steelgrave, padrone di Alle Danze, sospetto d'essere un giocatore d'azzardo e via di seguito. Una cara persona. Me l'han presentato. Ma il fermo e stato un fiasco.

– Che cosa vuoi dire con "fiasco"?

– Qualcuno ha soffiato alla polizia che Steelgrave era "Frigna" Moyer, e l'hanno fermato, per dieci giorni, senza un'accusa specifica, a disposizione della polizia di Cleveland. Poi Cleveland ha detto di lasciar correre, che non ne voleva sapere. Questo non ha niente a che vedere con la fine di Stein. Steelgrave era al fresco, quella settimana. Non c'e nessun legame, tra le due cose. Il tuo amico poliziotto ha letto troppi libri gialli.

– Tutti i poliziotti li leggono – affermai. – Per questo hanno un vocabolario cosi truculento. Grazie, Kenny.

Ci salutammo, e io deposi il ricevitore e rimasi seduto, appoggiato allo schienale della poltrona, a fissare la fotografia. Dopo un po' presi un paio di forbici ritagliai il pezzo che conteneva il giornale piegato, col titolo. Infilai i due ritagli in due buste separate e me le ficcai in tasca, insieme al foglio che avevo strappato dal blocco d'appunti.

Composi il numero di Mavis Weld. Dopo parecchi squilli mi rispose una voce di donna. Era una voce remota e formale che forse avevo gia udito e forse no. Tutto quel che disse fu:

– Pronto?

– Qui e Philip Marlowe. E in casa la signorina Weld?

– La signorina Weld non rincasera fino a questa sera tardi. Volete lasciare un messaggio?

– E molto importante. Dove posso trovarla?

– Mi spiace. Non ho idea.

– Credete che il suo agente lo sappia?

– E possibile.

– Siete sicura di non essere la signorina Weld?

– La signorina Weld non e in casa.

E interruppe la comunicazione. Rimasi seduto, e riascoltai la voce, dentro di me. Dapprincipio ero per il si, poi per il no. Piu ci pensavo meno ne sapevo. Scesi al parcheggio e tirai fuori la macchina.

CAPITOLO XVI

Sulla terrazza di Alle Danze qualche cliente mattiniero stava preparandosi a far colazione a base di liquori. Il salone all'ultimo piano, che aveva un'intera parete di vetro era riparato da un tendone. Passai oltre, imboccai la curva dello Strip, e andai a fermarmi di fronte a un edificio a due piani, di mattoni rosa carico, con delle piccole finestre-veranda a vetri bianchi impiombati e un portico greco, davanti alla porta d'ingresso, nonche un arnese che, dall'altro lato della strada mi parve un antico pomolo da porta in peltro. Sopra l'uscio c'era uno sfiatatoio a mezzaluna, col nome Sheridan Ballou e Soci, in lettere nere di legno, severamente stilizzate. Chiusi la macchina e mi diressi alla porta principale. Era alta, bianca, larga e aveva una toppa che avrebbe lasciato passare un topo. Dentro c'era la vera serratura. Cercai il batacchio; ma avevano pensato anche a quello. Era tutto d'un pezzo e non bussava affatto. Era solo un ornamento.

Quindi diedi una pacca a una colonna bianca, esile, molto rastremata, ed entrai direttamente nella sala d'aspetto che teneva tutta la parte verso strada dell'edificio. Era arredata all'antica con mobili neri e molte sedie e divanetti rivestiti di una stoffa trapunta, simile al chintz. Alle finestre pendevano tendoni di pizzo, inquadrati da volanti di chintz che richiamavano il chintz dei sedili. C'era un gran tappeto a fiori, e una quantita di persone che aspettavano di vedere il signor Sheridan Ballou.

Alcune di esse erano allegre, vivaci e piene di speranza. Altre avevano l'aria d'esser li da mesi. Una ragazza piccola e bruna piangeva in un angolo, nascondendo il viso nel fazzoletto. Nessuno le badava. Ebbi modo di vedere un paio di profili in eleganti prospettive prima che la compagnia decidesse che non ero venuto per comprare e che non ero impiegato li.

Una rossa dall'aria pericolosa sedeva languidamente dietro una scrivania del settecento e parlava in un telefono candido. Mi avvicinai, e lei mi trafisse con le lame azzurre dei suoi occhi, poi fisso la cornice che correva tutt'intorno alla stanza.

– No – disse nel telefono. – No. Dolentissima. Mi spiace, ma non e possibile. E troppo, troppo occupato.

Depose il ricevitore, spunto una voce, su un elenco, e mi gratifico di nuovo del suo sguardo adamantino.

– Buon giorno. Vorrei parlare col signor Ballou – dissi, deponendo sulla scrivania il mio biglietto da visita personale. Lei lo prese per un angolo e lo lesse sorridendo, divertita.

– Oggi? – chiese in tono amabile. – Questa settimana?

– Quanto ci vuole, di solito?

– Ci son voluti anche sei mesi – rispose allegramente. – Non puo esservi utile qualcun altro?

– No.

– Spiacentissima. E impossibile. Provate a ripassare… Quando vi pare, verso novembre.

Portava una gonna di panno bianco, una camicetta di seta color borgogna e una giacca molle di velluto nero, con le maniche corte. I suoi capelli erano un tramonto di fuoco. Portava un bracciale d'oro e topazi, orecchini di topazi e un anello di topazi, in forma di scudo. Le unghie erano esattamente del colore della camicetta, Aveva l'aria di metterci un paio di settimane a vestirsi.